Il sistema pensionistico italiano è sostenibile. Troppa la spesa per l’assistenza
Il sistema pensionistico italiano non è al collasso, è quasi in equilibrio e sostanzialmente è sostenibile purché le età di pensionamento siano coerenti con la demografia: è questo il messaggio che emerge dalla presentazione dell’Undicesimo rapporto “Il bilancio del sistema previdenziale italiano”, redatto dal Centro studi e ricerche Itinerari previdenziali. È vero che aumenta, ancora una volta, il numero di pensionati, che salgono dai 16,099 milioni del 2021 ai 16,131 milioni del 2022, ma cresce anche il tasso di occupazione, che nel 2022 arriva alla percentuale record del 60,1%, pur restando tra i più bassi d’Europa. Il risultato è che il rapporto tra occupati e pensionati risale fino a quota 1,4443: siamo lontani dalla “soglia della semi-sicurezza” dell’1,5 ma, nel complesso, il sistema regge e continuerà a farlo, a patto di saper compiere, in un Paese che invecchia, scelte oculate su politiche attive per il lavoro, anticipi ed età di pensionamento, come ha auspicato il presidente di Itinerari previdenziali Alberto Brambilla. L’invito lanciato ai partiti è chiaro: la stabilità del sistema pensionistico italiano nei prossimi anni dipenderà, da una parte, dalla capacità di porre un limite alle troppe eccezioni alla riforma Monti-Fornero e all’eccessiva commistione tra previdenza e assistenza cui si è assistito negli ultimi anni; e, dall’altra, da quella di affrontare adeguatamente la transizione demografica in atto e, in particolare, l’invecchiamento della forza lavoro.
Un pensionato ogni 3,65 abitanti
L’aumento del numero dei pensionati registrato nel 2022, infatti, è ascrivibile secondo il centro studi “alle molteplici vie d’uscita in deroga alla Fornero introdotte dal 2014 in poi e culminate negli ultimi anni con l’approvazione dapprima di Quota 100 nel 2019 e, quindi a seguire, di Quota 102”. Oggi su 3,65 residenti italiani almeno uno è pensionato, dato obiettivamente molto elevato se si tiene conto che il picco dell’invecchiamento della nostra popolazione verrà toccato nel 2045.
“Volendo trarre qualche prima conclusione» ha detto Brambilla, “a oggi il sistema è sostenibile e lo sarà anche tra 10-15 anni, nel 2035-40, quando la maggior parte dei baby boomer nati dal Dopoguerra al 1980 - in termini previdenziali assai significative data la loro numerosità – si saranno pensionate. Perché si mantenga questo sottile equilibrio, sarà però indispensabile intervenire in maniera stabile e duratura, tenendo conto di alcuni principi fondamentali: 1) le età di pensionamento, attualmente tra le più basse d’Europa (circa 63 anni l’età effettiva di uscita dal lavoro in Italia nonostante un’aspettativa di vita tra le più elevate a livello mondiale), e che dovranno dunque gradualmente aumentare evitando il ricorso a eccessive anticipazioni; 2) l’invecchiamento attivo dei lavoratori, attraverso misure volte a favorire un’adeguata permanenza sul lavoro delle fasce più senior della popolazione; 3) le politiche attive del lavoro, da realizzare di pari passo con un’intensificazione della formazione professionale, anche on the job; 4) la prevenzione, intesa in senso più ampio come capacità di progettare una vecchiaia in buona salute”.
Italia senza bussola
“Negli ultimi anni” ha aggiunto il presidente di Itinerari previdenziali “la discussione politica si è concentrata quasi esclusivamente sulle formule per accedere con anticipo al pensionamento, favorendo ora questa ora l’altra categoria, senza un disegno preciso alle spalle. Con il risultato di introdurre sì flessibilità, ma anche di vanificare gran parte di quei risparmi che la riforma Monti-Fornero mirava a ottenere e di rendere più difficoltoso il raggiungimento (e superamento) di quel rapporto di 1,5 tra pensionati e lavoratori attivi che certificherebbe la tenuta del sistema”.
Insomma, ci vuole un serio cambio di rotta da parte del nostro Paese, che al momento naviga a vista, senza una bussola, dinanzi alla più grande transizione demografica di tutti i tempi, con grande parte della spesa pubblica indirizzata verso sussidi e assistenzialismo (frenando le possibilità di crescita). Nel 2022 l’Italia ha complessivamente destinato a pensioni, sanità e assistenza 559,513 miliardi di euro, con un incremento del 6,2% rispetto all’anno precedente. Ma la spesa strettamente previdenziale comprensiva delle prestazioni di invalidità, vecchiaia e superstiti è stata nel 2022 pari a 247,588 miliardi, per un’incidenza sul PIL del 12,97%, una valore in riduzione rispetto al 13,42% dello scorso anno e non troppo distante dalla media Eurostat.
Welfare poco efficiente
La nuova edizione del Rapporto suggerisce dunque una corretta separazione tra previdenza e assistenza, e quindi una razionalizzazione della spesa assistenziale, che ormai da troppo tempo appesantisce le casse dello Stato, generando debito e sottraendo risorse a investimenti e sviluppo. Secondo i dati pubblicati nel documento, complessivamente il costo delle attività assistenziali a carico della fiscalità generale è ammontato nel 2022 a 157 miliardi, con un aumento di 12 miliardi rispetto ai 144,2 del 2021. Dal 2008, quando la spesa per assistenza ammontava a 73 miliardi, gli oneri a carico dello Stato sono più che raddoppiati, con un tasso di crescita annuo del 7,67%, addirittura di 3 volte superiore a quello della spesa per pensioni che sono però sorrette dalla contribuzione dei lavoratori. “Il tutto mentre il debito pubblico si avvicina pericolosamente ai 3mila miliardi e, secondo i dati Istat” ha dichiarato Brambilla “il numero di persone in povertà continua a salire (quelle in povertà assoluta erano 2,113 milioni nel 2008 e 5,6 nel 2021): verrebbe da dire che non solo spendiamo molto ma che spendiamo anche male. Ed è forse questa spesa eccessiva, abbinata agli scarsi controlli, a incentivare sommerso e lavoro nero, generando il tasso di occupazione peggiore in Europa”. Come ricorda il rapporto, su 38 milioni di persone in età da lavoro l’Italia tocca il proprio record con poco più di 23,5 milioni di occupati.