Baby gang, arrivano le nuove leve
Frammenti dall’Italia delle baby gang. A Milano una banda femminile composta da una decina di ragazze aggredisce nove studenti universitari in zona Ripa di Porta Ticinese con calci, pugni, cocci di bottiglia e spray al peperoncino. A Ferrara le teppiste sono poco più che bambine. La capa ha 11 anni, le altre tre ne hanno da 11 a 13. Arrivate in treno da Bologna, prima aggrediscono una ventunenne con spray urticante e le rubano lo smartphone, poi si scagliano contro una diciottenne, la prendono a schiaffi e le rubano lo zaino. A Verona una quattordicenne viene picchiata selvaggiamente da tre coetanee, ed è solo uno dei tanti episodi. Qui le bande di minori si danno addirittura nomi da malavita messicana: temibile la Prz (acronimo di «Porta rispetto zoccola»), la baby gang «in rosa» che spesso collabora con i giovanissimi maschi della Qbr («Quartiere Borgo Roma») e della Usk.
Le cronache di molte città italiane parlano di questi eventi come reati sporadici, ma osservati tutti insieme formano un fenomeno preoccupante. Sì: ormai a fare paura non sono più soltanto i gruppetti di maschi, ma pure quelli composti da giovanissime che con pari ferocia aggrediscono (anche senza motivo), rubano e magari puniscono perché le leggi della strada parlano chiaro: bisogna rispettare la zona, la gerarchia, le regole del branco. E bisogna che il potere del capo si rinnovi mostrando la sua forza. Per coloro che sgarrano sono botte e umiliazioni. Le vittime vengono quasi sempre strattonate per i capelli e le ciocche strappate via diventano trofei. Chi non partecipa al pestaggio riprende la scena con il cellulare. Un esempio su tutti: lo scorso anno a Siena dieci ragazzine tra i 14 e 15 anni sono state denunciate perché organizzavano «agguati» a coetanee con botte, schiaffi e sputi. Il capo era la più scatenata, spalleggiata dal resto del branco femminile.
«Ho paura a girare per alcuni quartieri di Milano» confessa Emma, 16 anni e un paio di brutte esperienze alle spalle. «Può capitare di trovarsi in una zona dove ci sono questi gruppetti di ragazze, e se gira male ti prendono a calci, a schiaffi, senza pietà e con i maschi che guardano ridendo. Credo che tutto sia cambiato dopo il lockdown». Rabbia e senso di precarietà che si sono innestati in fenomeni già avviati, come un lato oscuro del girl power. «Non c’è da sorprendersi», riflette Andrea Fagiolini, psichiatra dell’Università di Siena. «Le ragazze hanno nel tempo acquisito una maggiore libertà e alcune si sentono incoraggiate a esprimere apertamente la propria aggressività in contesti in cui in passato sarebbero state socialmente scoraggiate. I media hanno definitivamente sdoganato la rappresentazione di ragazze aggressive come figure di potere o di successo, e questo arriva a influenzare il comportamento delle più giovani. Alcune poi possono manifestare comportamenti aggressivi come risposta a situazioni difficili o traumatiche, recenti o passate, o per senso di appartenenza ideale a delle comunità».
Effettivamente la canonizzazione dei comportamenti è limpida: in questi giri talvolta spunta un «coltellino» (come si chiama in gergo una piccola lama ritenuta non letale), e la collaborazione con i coetanei maschi si sfrutta come extrema ratio. «Se in passato le donne entravano in scena come “reggenti” temporanee, magari perché i loro uomini venivano ammazzati o incarcerati, adesso ci troviamo davanti a un nuovo fenomeno: le minori vogliono tutto, con incredibile rabbia e ferocia. Sono astute e spregiudicate, a volte più dei coetanei maschi», commenta un investigatore lombardo che sta seguendo un importante caso di violenza avvenuto nel capoluogo. «Riescono a manipolare non di rado i coetanei, arrivando a sopraffarli psicologicamente. Si ispirano a organizzazioni criminali complesse, di cui sembrano aver introiettato perfettamente gli schemi, anche se a volte mutuati più che dalla cronaca o dall’esperienza diretta, da telefilm e docuserie», conclude l’esperto. Secondo una mappa realizzata dagli investigatori, in alcuni quartieri di Milano - dal Giambellino alla Barona, Baggio e San Siro - esistono ruoli specifici affidati anche alle adolescenti. E, se si scende lungo la Penisola, la situazione non cambia. Nel quartiere Zen di Palermo il peso della mafia resta centrale e così «piccoli» e «piccole» lavorano per i «grandi» nel controllo del territorio e dei quartieri meno battuti dal turista e, soprattutto, dalle istituzioni. In Calabria le «gang giovanili» hanno legami con la ’ndrangheta.
Un meccanismo simile a quello che funziona anche a Napoli. «Tutto nasce da un sentimento di emulazione. Se prima la donna supportava magari il ragazzo malavitoso, ora, poiché attratta anche sui social da quello che viene chiamato “ragazzo malessere”, finisce col vestire i suoi stessi panni e partecipare così alle scorribande, ai furti, alle attività criminali». A parlare è Salvatore Paternoster. Ha soli 26 anni, eppure ha già vissuto varie esistenze. Ha fatto parte in passato di una baby gang, salvo poi uscirne, riprendere gli studi e fondare un’associazione, «Giovani promesse», attiva sul territorio proprio per recuperare ragazzi che altrimenti finirebbero nelle maglie della piccola o grande criminalità. Salvatore spiega a Panorama il meccanismo che accomuna ragazzi e ragazze e che, inevitabilmente, tira dentro le bande criminali: «L’unica cosa che ci teneva uniti era la comune provenienza da contesti economicamente e socialmente difficili. E come succedeva a me, capita ancora oggi a migliaia di adolescenti: si lasciano trasportare dalla mentalità del ghetto e dalla noia che c’è all’interno del quartiere».
Perché si parla anche di noia, di mancanza di alternative. «In questo modo il gruppo entra facilmente in contatto con la realtà criminale che già controlla quel territorio. E ti convinci che la violenza può essere un metodo per importi. Anche perché per affermarti, per soddisfare le tue esigenze, hai bisogno di denaro. Ragazzi che magari provengono da famiglie che non ne hanno, vivono come un’ingiustizia il fatto che tanti coetanei posseggano tante cose. E vedendo i figli dei boss, che sfoggiano la loro ricchezza, si diventa certi che la strada da intraprendere è l’illegalità». In questo modo si entra in una sorta di «Matrix» come la definisce Salvatore, «un mondo chiuso dove i ragazzi si conoscono tra loro, si gestiscono con proprie regole, entrano in conflitto anche armato con bande degli altri quartieri. Scatta un automatismo per cui per stare bene bisogna fare come i delinquenti, i camorristi, i guappi del quartiere. Entri in quell’illusione per cui la scuola e tutto ciò che ti consentirebbe di affermarti per vie legali, è una perdita di tempo, perché richiede anni e sacrifici». È in questo modo che ha inizio, che le bande cominciano a far paura e a controllare il territorio. Spesso per conto di mafia o di camorra. O, altre volte, in autonomia. A patto che non si tocchino gli interessi dei più «grandi» e che si paghi una quota per ogni furto commesso, un dazio che dà la possibilità di agire.
Tra rapine, risse e droga, ciò che muove queste baby gang sono sempre questioni economiche: avere soldi in modo facile e immediato. È il motivo per cui tra i baby-rapinatori spiccano i cosiddetti «rapinarolex», come racconta uno degli investigatori che maggiormente nella città campana ha seguito questo fenomeno fino a diventare una sorta di super-poliziotto sul tema: Raffaele Giardiello. «I ragazzini provengono e si muovono nei quartieri storici della città: Quartieri Spagnoli, il cui punto di ritrovo per eccellenza è la Parrocchiella, poi Forcella e il Pallonetto di Santa Lucia. Tutte zone con dedali di strade in cui facilmente si possono far perdere le proprie tracce, magari nascondendo la refurtive nei famosi “bassi”» spiega. Ormai non basta più la sola città di Napoli, ma si parte in trasferta seguendo il flusso di soldi. Spesso al Nord oppure in estate all’estero, a partire da Ibiza. Tutto è rodato. Compreso il meccanismo di furto. E, ancora una volta, nella banda compaiono le ragazzine: «Si parte di solito in tre» spiega Giardiello, «due ragazzini si muovono con uno scooter che affittano direttamente in zona con un documento falso. Una volta individuata la vittima e “strappato” l’orologio, viene affidato alla ragazza che fa ritorno a Napoli magari col treno». Ed è qui che poi, attraverso ricettatori e clienti (anche insospettabili), i giovanissimi riescono a guadagnare anche 100 mila euro con un solo colpo, a seconda degli orologi o dei preziosi rubati.
Difficile, però, stabilire dove abbia fine il furto e invece abbia inizio l’aggressione, che può anche essere fatale. «Spesso» confida un ragazzo che conosciamo proprio alla Parrocchiella «il furto di orologi avviene con la minaccia. E si fa paura con la pistola. Molti di noi ne hanno una». Non è un caso, forse, che proprio il ragazzo ucciso a Napoli in piazza Municipio quest’estate, Giovambattista Cutolo, sia stato freddato dopo una lite per questioni banali da un adolescente di 17 anni che, secondo quanto ci racconta ancora Giardiello, «faceva parte di una baby gang dedita al furto di orologi e i parenti più prossimi erano stati arrestati in passato per lo stesso reato». Si tratta di un fenomeno comune a tante periferie. Anche se, ovviamente, ogni città ha le sue prerogative. Prendiamo Roma: qui ciascuna banda ha la sua «specialità». Dallo spaccio di droga (San Basilio e Tor Bella Monaca) alle rapine ai coetanei (Centro storico, Flaminio-Parioli, Balduina-Medaglie d’Oro), ai mini market (Tuscolano, Tiburtino, Anagnina, Magliana-Trullo). Senza contare i furti e borseggi (nelle fermate e sui convogli delle metro A e B) e atti di bullismo (Trastevere, San Lorenzo, Aurelio-Primavalle). Secondo un recente dossier - il «Transcrime Research in Brief »- realizzato in collaborazione con la Direzione centrale della polizia criminale del Dipartimento di pubblica sicurezza e quello per la Giustizia minorile e di comunità, sono tre i grandi gruppi criminali composti da giovanissimi: la Anundo gang’s, attiva soprattutto in zona Marconi e Ostiense; e poi La17, «regina» alla Garbatella e all’Eur; La18, attiva a Roma nord, con affiliati nelle zone «bene» e vittime avvicinate anche a Villa Borghese e al Pincio.
Oltre a violenze e soldi, c’è un’altra componente, che si riscontra poi soprattutto al Settentrione, in grado di cementare queste baby gang: la musica trap, che spesso celebra le stesse azioni criminali. Non è un caso, forse, che solo un mese fa due trapper, Baby Gang e Simba La Rue, siano stati condannati rispettivamente a cinque anni e due mesi e sei anni e quattro mesi per il loro coinvolgimento nella rissa del luglio 2022 in zona corso Como a Milano, dove furono gambizzati e rapinati due ragazzi di origine senegalese. Alla Barona è attivo il gruppo GL27, con giovani di nazionalità italiana legati al cantante trap Rako27. Nel Municipio 2 (tra la Stazione e Loreto), invece agisce la K.o. Gang, che conta una ventina di minorenni italiani e nordafricani, in cui il cantante rap El Kobtannn rappresenta una figura di riferimento. E così i video musicali in cui primeggiano pistole, soldi e droga diventano un ulteriore strumento di propaganda. Inevitabile allora che, visti questi presupposti, specie nei momenti di maggiore euforia si possano scatenare guerriglie e rappresaglie. Esattamente come accaduto pochi giorni fa, la notte di Capodanno nella zona di San Siro, dove un gruppo di ragazzi ha accatastato rifiuti, mobili e cassonetti in mezzo alla strada, dandogli poi fuoco. Da lì, è partito lo scontro con le forze dell’ordine, con tanto di sassaiola e bottigliate.
Visto questo capillare e aggressivo controllo del territorio, è inevitabile che si seguano in alcuni casi dinamiche coniate direttamente dal mondo della criminalità. E così ci sono bande rivali e bande che invece preferiscono collaborare. Anche spostandosi da una città all’altra. A rivelarcelo il membro di un’organizzazione milanese dedita soprattutto allo spaccio: «Spesso ospitiamo ragazzi napoletani: gli garantiamo alloggio e informazioni su dove reperire motorini. Magari gli indichiamo alcune zone da battere, se occorre. Ma loro sanno, poi, che il 30 per cento del guadagno dopo la rapina è nostro». La domanda che resta da porsi, però, è quale sia la contromisura. E, soprattutto, se la responsabilità sia soltanto dei ragazzi abbandonati in quartieri dove regna il degrado e dove è difficile che si possa intravedere altro dalla delinquenza. Ancora una volta, il racconto di Salvatore è illuminante: «Quando vedevo rapinatori che magari poi si facevano quattro-cinque anni di carcere, cominciavo a chiedermi se gli fosse convenuto. Ha senso fare questa vita se poi perdi cinque, dieci anni dei tuoi figli? È lì che ho deciso di riprendere gli studi. Con l’istruzione mi rendevo conto che riuscivo a dialogare anche con ragazze e ragazzi con i quali prima non avrei mai parlato, che forse prima avrei bullizzato perché provenienti da quartieri più “in” della città. Ho iniziato a parlare l’italiano, cosa che molti giovanissimi a Napoli non sanno fare. E poi ho deciso di aiutare anche gli altri, i ragazzi del mio territorio. Voglio far capire loro che la strada dell’illegalità porta solo al carcere o alla morte. La soluzione è nello studio. Oggi siamo impegnati nel portarli a visitare i luoghi più belli della Campania, proprio per dimostrare di quanto siano meravigliose le nostre radici. Ci prendiamo anche cura delle aiuole nelle varie zone, a dimostrazione che ci sono tanti adolescenti che, se ne hanno la possibilità, vogliono impegnarsi per la tutela del proprio quartiere. A breve, poi, andremo nelle scuole per parlare di dipendenza di social network, altro fronte di cui ci occupiamo».