Paolo Rossi: «A Monfalcone c’è bisogno di spazi dove poter pregare. Avrei manifestato anch’io»
MONFALCONE Una sera qualsiasi d’estate, una sera d’infanzia all’alba degli anni ’60. Il Marlena Bonezzi non è ancora un contenitore comunale. E neppure un teatro, bensì la sala del cinema Azzurro.
Ospita una pièce in cartellone e così l’occhio di bue accende il palco. In platea siede un Paolo Rossi ancora pargoletto. Il sipario si alza: suo nonno, Armando Rossi, attacca a recitare Pirandello.
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La scena ora si sposta. Il tempo attraversa movimenti, rivoluzioni e repubbliche, cambia secolo. A sessant’anni di distanza, il nipote, ch’era bambino, ricalca le scene del nonno. Riporta a Monfalcone Pirandello, venerdì alle 20.45.
È il cerchio della vita che si chiude. L’attore non può non pensarci, prima del rientro a “casa”. Al momento dell’intervista però si trova catapultato a Roma. Zigzaga tra un taxi e l’altro. Ci scappa mezza invettiva.
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Paolo Rossi, che fa nella Capitale?
Sono venuto per il doppiaggio di un film girato a Cervignano.
La sento preoccupato.
Sta arrivando un’auto e spero non mi investa. Sono molto pericolosi i taxi romani. Resisto, salgo e riprendo il filo.
Di che film si tratta?
Gloria! di Margherita Vicario.
Lei è nato a Monfalcone, una città salita di recente alla ribalta mediatica...
Purtroppo non la conosco bene, vi sono tornato appena un mese fa. Di pomeriggio. E sono stato assorbito subito dai ricordi d’infanzia. La casa in cui sono nato, al civico 42 di viale San Marco stava vicino a una campagnetta. Ora ci sono uno store dismesso e un palazzo.
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Pure la premier ha accennato a questa città.
Io, la realtà politica dell’intero Paese, Milano compresa, la racconto attraverso le storie: Pirandello non arriva a caso. Non do più teoremi politici. Troppi comici lo fanno e l’ho fatto pure io, per un periodo.
Ora non più?
Lo faccio meglio: le storie sono come diamanti, hanno molte facce e le puoi vedere da più angolazioni. Le racconto dal basso, me l’ha insegnato quest’autore. Ho perso l’indirizzo, è una congiura cosmica: devo tornare indietro e chiamare un altro taxi, abbia pazienza.
Si figuri. Intanto, volendo far uscire l’attore dal palco, come Pirandello, le chiedo un’opinione sulla battaglia per dare un luogo di preghiera ai tanti musulmani di qui.
C’è così bisogno di preghiere e suppliche che dovrebbero aprirsene, di luoghi, pure per chi non ha una fede. Figurarsi se non sono favorevole! La messa è uno spettacolo che sta in cartellone da qualche migliaia d’anni. Lo dico senza offese, eh? Ho cominciato a recitare in parrocchia e poi sono finito dall’altra “parte”, ma serbo vivo il ricordo popolare.
Sul suo palco può capitare di tutto e una preghiera?
Di sicuro il pubblico balla, in fondo è una forma di preghiera. Abbiamo fatto già 15 date da tutto esaurito e ne abbiamo altre 15 in giro. Che posso dire? Si tratta di uno spettacolo e di un esperimento sociale: poi, se uno vuole pregare può farlo. Nessuna zona del teatro è protetta né proibita.
Problemi di destinazione d’uso?
No, il teatro dev’essere un posto di relazioni sociali, dove si cementa la comunità. Me l’insegna Pirandello: il palco è un luogo dove si gioca con le proprie parti nere, le paure. E giocandoci, con queste ombre, non prendono corpo. È il senso del teatro e soprattutto del mio, dove si recita con il pubblico e non al pubblico. Ecco, sono arrivato, pago il tassì.
In città son scesi in corteo 8 mila islamici (e non) per rivendicare un luogo di culto.
Avessi vissuto ancora a Monfalcone ci sarei andato anch’io. In sostegno.
Pur da ateo?
Ah, non lo sono, resto “aperto” perché non si sa mai che succede dopo.
Come sarà la pièce qui?
Sono ormai sicuro della messinscena, ma forse questa sarà la data in cui sarò più emozionato: in quel teatro, una volta un cinema, ci andavo da bambino. Mi ci portava uno dei miei nonni, mentre l’altro recitava lì proprio Pirandello.
Come si chiamava?
Armando Rossi, attore professionista. Veniva dalla Sicilia e lì incontrò mia nonna, di Fiume. Uno strano meticciato, Fiume-Corleone.
Figlio di Monfalcone...
Come mio padre e mia madre.
Torniamo al Bonezzi.
Lì c’era il cinema Azzurro. L’altro mio nonno, ch’era vigile urbano, mi faceva entrare gratis. In città, dopo i 6 anni, venivo solo d’estate. Stavo 4 o 5 mesi. Al mattino me ne andavo al mare a Sistiana, al pomeriggio e sera al cinema: questo era, per me, Monfalcone.
L’avrebbe detto che 60 anni dopo si sarebbe trovato al posto del nonno?
Non l’avrebbe mai detto lui. Stili completamente diversi.
Qui in città abbiamo politici molto performanti, i suoi attori lo saranno sul palco?
No, noi facciamo proprio il contrario: non recitiamo più. Raccontiamo. Siamo dei cantastorie. Personalmente sto cercando di tornare alle origini e lo spettacolo è un mix di ciò che ho imparato a Milano negli anni ’70, lavorando con maestri della commedia dell’arte, come Strehler, e del cabaret: Jannacci, Gaber e Fo. Ho avuto la fortuna di incontrare i grandi e ragiono da teatrante. La società è ormai quella dello spettacolo, come fu profetizzato in quegli anni: per riequilibrare, noi attori, non siamo più quel genere di performanti.
Però anche i politici talvolta sono un po’ cantastorie...
Sì, ma noi abbiamo studiato di più. Come teatranti rivendichiamo un ruolo per differenziarci da quelli che, tra virgolette, chiamiamo umani: abbiamo il privilegio di cogliere le storie dalla strada, le più importanti in fondo. Quelle di Pirandello nelle sue Novelle.
Perché è attuale?
Pirandello e Svevo sono i due assi narratori del secolo scorso, dello scorso millennio, di solo pochi anni fa.
Le pare cambiata la città?
Pur se abito a Trieste, non mi capita spesso di venirci, perché sempre impegnato a scrivere o a provare. Un mese fa, m’è parsa molto mutata da quando ci venivo io. Ma per dare un giudizio dovrei starci un po’ di più. E spero di farlo.
Dal pubblico che spera?
Mai niente, sarò in trance. Lo sono sempre, sul palco. Per metodo, tecnica, adrenalina. Più che avere dei ricordi dalla serata, credo che me la ricorderò per sempre.
Ci si vede a teatro.
Sì. E scusi le montagne russe sui taxi. Non vorrei però passare per filorusso, diciamo montagne carsiche. In quest’era di performatori e sparatori di etichette è meglio volare basso con alto profilo: lo diciamo noi commedianti. Non è facile.