Elogio della polpetta: «Non abbiate paura di sperimentare»
Pavia. Se esiste un simbolo della cucina sincera, quello è la polpetta. Niente pose, niente estetica, niente sprechi: solo l’idea geniale di assemblare gli avanzi e dar loro nuova vita. La polpetta è il trionfo del recupero, l’elogio del buon senso domestico, un’idea vintage svuotafrigo. Nasce quando resta solo un po’ di carne già cotta, un tozzo di pane duro e qualche uovo. È il piatto che rende onore al verbo “rimediare”, un verbo che oggi dovremmo riscoprire, anche in cucina.
La storia della polpetta è antica e popolare. Da noi si chiamano farciulin, o pulpètt; a Milano mondeghili. Cambia il nome, non la filosofia: si recupera tutto, dal lesso ai salumi avanzati, fino al pane raffermo bagnato nel latte. Si unisce un po’ di formaggio, una grattata di noce moscata e si modella l’impasto con le mani unte, lavorandolo “a occhio”, senza bilancia e senza fretta. Niente sugo, qui da noi: le polpette devono essere dorate, croccanti fuori e morbide dentro, magari profumate di rosmarino.
Tutti, almeno una volta, siamo sgattaiolati in cucina di soppiatto per rubarne una ancora calda, col rischio di scottarci la lingua. Si soffiava, si mordeva piano, si rideva. La polpetta era più che un piatto: era un momento di complicità familiare, un profumo che riempiva la casa e rimaneva attaccato ai vestiti, ma non ci si badava troppo, la ricompensa era golosa. Nelle nostre campagne la polpetta era, storicamente, un modo per far bastare la carne (quando c’era) a più persone. Bastava allungare con pane, uova e un po’ di fantasia, e il pranzo diventava per tutti. Non c’era vergogna nel “recuperare”: c’era orgoglio, perché significava saper cucinare davvero, dare sapore al poco e dignità agli avanzi. Oggi lo chiameremmo sostenibilità, ma allora era semplicemente intelligenza, buon senso e rispetto.
Persino i salumi trovavano spazio nell’impasto: un pezzetto di mortadella, una fetta di salame, il fondo del prosciutto, tutto finiva dentro, amalgamato e profumato. E se restavano, le polpette del giorno dopo diventavano panino, merenda o spuntino. Ogni tanto penso che la polpetta sia la metafora perfetta della nostra cucina lombarda: concreta, rassicurante, mai frivola. Ha la forma dell’umiltà e il sapore della casa. Non serve l’impiattamento: basta un piatto semplice e un tovagliolo di cartapaglia per sentirsi ricchi.
Oggi, quando mi capita di prepararne un vassoio, il profumo che si sprigiona è lo stesso di allora: olio, rosmarino e un po’ d’aglio che sfrigola piano. E ogni volta mi sorprendo a fare quel gesto antico, da bambino impaziente: rubarne una dal mucchio, soffiarci sopra, assaggiarla e scottarmi inevitabilmente, ma è più forte di me. Il mondo può anche cambiare, ma finché ci sarà una polpetta calda da mordere, ci sarà sempre una cucina che sa di casa, di memoria e di intelligenza contadina.
*Lo chef Riccardo Carnevali è il segretario dell’Unione cuochi lombardia
