Giornata Internazionale di Internet: quando la connessione isola. I sette nuovi vocaboli della solitudine
Internet doveva liberarci. Doveva essere la grande rete della conoscenza, il filo invisibile che unisce il mondo. Invece, a oltre mezzo secolo dal primo messaggio scambiato tra due computer, il suo linguaggio tradisce una verità più inquieta: la connessione può diventare gabbia, la condivisione isolamento. Lo dimostrano i termini raccolti da Babbel per l’International Internet Day, un piccolo dizionario del disagio contemporaneo, nato per raccontare il lato oscuro della vita digitale.
Come spiega Gianluca Pedrotti, Principal Learning Content Creator di Babbel, «la lingua si adatta ai mutamenti tecnologici e sociali: nasce per dare un nome a ciò che ancora non riusciamo a spiegare». E oggi, quel bisogno di nominare, riguarda l’ansia che ci accompagna dietro gli schermi. Perché le parole, prima di tutto, sono specchi.
Doomscrolling: l’informazione come condanna
Scorrere compulsivamente notizie e contenuti negativi fino a sentirsi svuotati. È la sindrome del doomscrolling, un’abitudine che nasce durante la pandemia ma che non ci ha più lasciati. Il verbo “scrolling” (scorrere) unito a “doom” (sventura) racconta l’assuefazione all’allarme: quella catena infinita di post e breaking news che, più la si osserva, più si stringe intorno. L’idea di essere informati diventa alibi per un controllo continuo che alimenta paura e impotenza. La mente cerca rassicurazione, ma trova solo altro disordine. La curiosità cede il passo all’ossessione, e la rete diventa un labirinto senza uscita, dove ogni notizia sembra confermare il peggio. È la nuova forma di insonnia digitale: restare svegli a scorrere l’apocalisse.
Like loop: la dipendenza da approvazione
Un ciclo infinito di “mi piace” e attese. Il like loop è la gratificazione immediata che diventa dipendenza, il riflesso condizionato dell’era dei social. Si pubblica per essere visti, per sentire che si esiste nel campo visivo degli altri, in quel fragile equilibrio tra esposizione e invisibilità. Ogni notifica rilascia una micro-dose di dopamina, e il piacere diventa meccanico, quasi fisiologico. L’illusione è quella dell’amore digitale: essere amati, anche solo per un istante, da qualcuno che non si conosce. Ma la realtà è diversa — il like loop funziona come una giostra che non si ferma mai: un continuo saliscendi di entusiasmo e frustrazione. E quando i “mi piace” non arrivano, resta la sensazione di non valere abbastanza, come se l’identità si misurasse in pixel.
Filter fatigue: la stanchezza da perfezione
La filter fatigue è il logoramento dell’immagine, il prezzo da pagare per apparire sempre al meglio. È l’ansia da prestazione traslata nella vita digitale, dove ogni istante può diventare contenuto. Filtri, editing, pose studiate: la perfezione diventa una maschera da indossare quotidianamente, e più la si indossa, più diventa difficile toglierla. Inseguendo la versione migliore di sé, si perde contatto con quella reale. È la fatica invisibile di chi non osa mostrarsi senza correzioni, di chi misura il proprio valore in base ai parametri estetici di un algoritmo. La filter fatigue è il nuovo esaurimento estetico: stanchi di essere belli, stanchi di essere approvati, stanchi di non poter semplicemente essere.
Content overdose: l’ubriacatura da contenuti
Viviamo immersi in un flusso ininterrotto di informazioni. La content overdose è la sindrome da sovraccarico digitale, quella sensazione di saturazione mentale che nasce quando tutto diventa “troppo”. Troppo veloce, troppo rumoroso, troppo presente. L’informazione si trasforma in rumore di fondo, e la conoscenza perde il suo valore selettivo. Il cervello, costretto a elaborare senza sosta immagini, dati, video, notifiche, smette di scegliere e comincia a subire. È l’era della distrazione permanente, in cui si conosce molto ma si comprende poco. Nell’eccesso, la mente cerca silenzio; nel flusso, desidera uno spazio vuoto. La vera ribellione, oggi, è disconnettersi.
Posting ennui: la noia della condivisione
“Ennui” significa noia, ma in francese è una noia esistenziale, profonda, che nasce dall’eccesso di senso e dal vuoto di significato. Applicata al digitale, dà vita al posting ennui: la stanchezza di chi non ha più nulla da condividere, o meglio, non sente più il bisogno di farlo. È la resa di chi decide di uscire dal flusso, di non raccontarsi più, di sottrarsi alla narrazione continua di sé. Internet era nata come spazio di libertà; oggi, per molti, è una vetrina che stanca. I più sensibili scelgono il silenzio: meno post, meno selfie, meno spettacolo. In questa rinuncia c’è una forma di guarigione. La noia, paradossalmente, diventa la prima cura all’iperconnessione.
Relazioni parasociali: l’intimità dell’illusione
Siamo amici di persone che non conosciamo, confidenti di volti che non ci hanno mai guardato davvero. Le relazioni parasociali sono il nuovo paradosso dell’affettività digitale: legami unilaterali nati con celebrità, influencer o personaggi immaginari, alimentati dall’illusione della prossimità. L’utente segue, commenta, immagina una relazione reciproca, ma l’altro — l’oggetto di affetto — resta lontano, inaccessibile, filtrato da uno schermo. È un legame emotivo costruito sul vuoto, una relazione senza relazione. Col tempo, questo tipo di coinvolgimento può sostituire le relazioni reali, creando una sorta di intimità immaginaria che disabitua all’incontro autentico. È la solitudine travestita da compagnia.
Alone together: la solitudine condivisa
Forse il più poetico dei neologismi, e certamente il più amaro. Alone together, “da soli insieme”, descrive l’essenza contraddittoria della nostra epoca. Viviamo circondati da presenze, ma privi di prossimità reale. Comunichiamo costantemente, ma ci comprendiamo sempre meno. È la condizione di chi si sente solo pur essendo immerso in una folla digitale, di chi parla senza essere ascoltato e ascolta senza davvero esserci. Gli smartphone hanno sostituito gli sguardi, le chat i dialoghi, le reazioni le emozioni. E così la connessione diventa simulacro, un’imitazione di intimità. L’“alone together” è la fotografia perfetta della società iperconnessa: un mondo che non smette di parlarsi, ma ha dimenticato come toccarsi.
Oggi, nel giorno dedicato a Internet, Babbel ci ricorda che il linguaggio è la prima bussola per orientarci nel caos digitale. Dare un nome alle nostre paure significa riconoscerle. E forse, iniziare a ridisegnare la rete come doveva essere: un luogo d’incontro, non di smarrimento.
