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Intervista a Brian Chesky, il fondatore di Airbnb: «E ora cambio tutto»

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Airbnb è come la Nutella: è il sinonimo automatico di una categoria, l’emblema non della crema spalmabile ma dell’affitto breve. 

Ha trasformato il turismo invadendo il vocabolario: dire «vado in un Airbnb» appartiene ormai al linguaggio comune. È il marchio che identifica il prodotto. 

Oggi, dopo aver reso accessibili le case degli altri, superati i 2 miliardi di ospiti, il suo fondatore Brian Chesky ha deciso di allargare il campo. Di arricchire la piattaforma con i servizi e le esperienze: chef, massaggi, parrucchieri e personal trainer a domicilio, tour guidati nelle città, avventure nella natura, variazioni plurime sul tema del fare oltre lo stare. Panorama lo incontra dopo la presentazione delle attività organizzate con gli atleti olimpici: 26 proposte dedicate agli amanti dello sport, in vista di Milano Cortina 2026. Per l’occasione, non indossa la classica divisa casual della Silicon Valley, ma la giacca e la camicia. Sembra genuinamente entusiasta quando scopre che chi lo intervista è di Catanzaro come lui («Lo sono dalla parte di mia madre. Provo orgoglio per le mie radici italiane, per questa cultura così ricca»), non schiva le domande spinose sugli effetti collaterali del successo della sua creatura, simili a quelli del consumo eccessivo di certi cibi squisiti, però troppo calorici.

Chesky, cominciamo dalla fine. Perché complicarvi la vita e andare oltre lo sterminato catalogo degli alloggi?

Airbnb è sempre stato qualcosa di più. La sua essenza è, sin dall’inizio, mettere in connessione le persone. Il loro valore principale non sono le case, ma il tempo. Le esperienze costruiscono memorie, quelle che ci portiamo dentro. Credo potranno attrarre un pubblico più vasto. 

Suona come una sfida frontale contro gli alberghi.

Hanno molti servizi ed è una delle ragioni per cui le persone li scelgono. Noi possiamo fare di meglio, arrivare ad avere un ventaglio di proposte accessibile non solo quando si è in vacanza.

Intendete rivolgervi anche ai residenti delle città?

Se la logica è premere un tasto e avere un cuoco a domicilio o iscriversi a una lezione di cucina, non deve essere necessariamente legato alla prenotazione di un soggiorno lontano. Può funzionare per gli abitanti di ogni luogo. Puntiamo a essere un riferimento, a rendere Airbnb uno stile di vita anziché un modo di viaggiare.

Con i servizi partite da zero, senza il conforto delle recensioni di altri utenti. Perché fidarsi?

Abbiamo alzato il livello, siamo consapevoli che questo è un territorio di scelte opzionali, non imprescindibili come un alloggio in trasferta. Le persone, dunque, sono particolarmente attente alla qualità. Valutiamo qualunque proposta prima di pubblicarla, verifichiamo l’identità, la formazione, i titoli e, se necessarie, le licenze di chi la offre, consultando le opinioni ricevute su altre piattaforme. Diamo una specie di sigillo di ceralacca.

Prossimamente lancerete una sorta di social network legato alle esperienze.

Sarà volontario, ognuno deciderà se farne parte oppure no. Dando il consenso, si potrà vedere in anticipo chi ci sarà a un determinato appuntamento. Sarà possibile scambiarsi messaggi prima, foto e video una volta concluso. Insomma, rimanere in contatto.

Cosa c’entra con Airbnb?

La promessa di Internet era rendere il mondo più piccolo e l’ha mantenuta solo a livello digitale. Non è semplice interagire con gli sconosciuti, difficilmente si parla con loro quando si è al ristorante o allo stadio. In viaggio è diverso: si è aperti all’incontro. Vogliamo facilitarlo. 

Qual è la prospettiva?

Mi piacerebbe che Airbnb possa essere il metodo per trovare compagni di stanza prima di una partenza o scegliere una casa sapendo che un amico c’è già stato e l’ha apprezzata. Non sono tante le aziende tecnologiche che stanno lavorando su un piano così umanista. 

È una critica al settore a cui appartiene?

È un’osservazione. I social network sono diventati social media, gli amici dei seguaci. La frontiera è consumare contenuti generati dall’Intelligenza artificiale. Io preferisco ricordare che la vita non scorre sugli smartphone. Sono strumenti, non portali. Molte app fanno di tutto per spingere le persone a trascorrere più tempo possibile a utilizzarle, noi siamo un lasciapassare. Non per l’ennesima destinazione virtuale, ma verso il mondo reale.

Così reale da aver favorito l’aumento dei prezzi delle case e causato una minore disponibilità di alloggi per i residenti delle città. Per non parlare di fenomeni come l’overtourism.

Il punto non è che troppe persone viaggiano, ma che lo fanno nello stesso posto, allo stesso momento. Potremmo contribuire a questo quadro, come le crociere o gli alberghi. Ma per ciascuna persona che sta in un Airbnb, nove soggiornano in un hotel. Noi ridistribuiamo i flussi: la metà del nostro business in Italia non è nei grandi centri, ma nelle comunità rurali. In coincidenza di grandi eventi come le Olimpiadi, rappresentiamo una soluzione più economica o una possibilità di alloggio dove non esistono alternative. E tantissimi italiani contano su di noi per poter pagare 

i loro affitti e i loro mutui.

Si sta smarcando da ogni accusa?

Penso che la misura delle nostre responsabilità sia spesso esagerata e non supportata in modo adeguato dai dati. Non abbiamo mai voluto contribuire a far salire ai costi delle case. Se è successo, dobbiamo guardarci allo specchio, lavorare con i regolatori locali, comprendere le loro difficoltà e adeguarci a rispettare norme ragionevoli. Non vogliamo essere parte del problema, ma della soluzione.