Tra sanzioni e regimi corrotti l’economia iraniana è in crisi perenne. Penalizzati soprattutto i giovani
L’attacco di Israele e Stati Uniti contro l’Iran colpisce un paese economicamente già molto provato. Il Pil del paese vale circa 434 miliardi di dollari, con una popolazione di 90 milioni di abitanti significa un pil pro capite estremamente basso, 4.800 dollari, ovvero il 117esimo al mondo. Come molti valori medi, il dato è parzialmente ingannevole, visto che nel paese la distribuzione delle ricchezze è estremamente polarizzata. L’1% degli iraniani più ricchi possiede il 30% dell’intera ricchezza nazionale e il 10% più abbiente ne possiede quasi i due terzi, mentre il 50% più povero ne controlla soltanto il 3,5%. Circa il 33% degli iraniani vive al di sotto della soglia di povertà ufficiale.
L’ex presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad si è spinto ancora più in là delle statistiche ufficiali, quando ha affermato che il 60% della ricchezza nazionale è controllato da appena 300 persone, la maggior parte delle quali trasferisce la propria ricchezza all’estero per acquistare immobili e/o depositarla in conti segreti.
Fatta eccezione per questa risicatissima minoranza, per il resto della popolazione la vita è grama. Inoltre, l’inflazione annua si colloca vicino al 40%, con costi delle abitazioni proibitivi per buona parte della popolazione e con il 45% del reddito familiare speso per l’affitto. Il tasso di disoccupazione giovanile è vicino al 20%. Il paese ha una popolazione estremamente giovane, in crescita e con livelli di istruzione relativamente elevati. Milioni di laureati rimangono però esclusi dal mercato del lavoro poiché non trovano offerte. Dal 2010, con il calo dei prezzi del petrolio e l’inasprimento delle sanzioni, l’economia è ferma.
Eppure l’Iran è, potenzialmente, una superpotenza energetica. Possiede il 10% delle riserve mondiali di petrolio (le terze al mondo) e il 15% delle riserve di gas (le seconde). Un tesoro sfruttato solo in parte, principalmente a causa delle sanzioni. Nonostante le misure punitive Teheran riesce ad esportare tra i 2 e i 3 milioni di barili al giorno (l’Arabia Saudita ne esporta poco meno di 10 milioni), diretti quasi esclusivamente in Cina. I proventi del petrolio rappresentano circa il 18% del Pil e il settore degli idrocarburi fornisce il 60% delle entrate governative.
Le sorti del paese sono quindi legate piuttosto strettamente ai prezzi del greggio sul mercato internazionale. Un dollaro di differenza significa minori o maggiori entrate per circa un miliardo di dollari l’anno. Paradossalmente, nell’ultimo anno, il paese ha dovuto affrontare una grave crisi energetica, con un deficit di elettricità pari al 50% della sua capacità di generazione totale. L’esaurimento delle risorse idriche ha fatto sì che i principali bacini delle dighe che riforniscono Teheran abbiano raggiunto livelli pericolosamente bassi, attestandosi ad appena il 7% della piena capacità.
Le difficoltà economiche non sono una novità. Regimi corrotti, che si sono succeduti nell’ultimo mezzo secolo ed oltre, ci hanno tutti messo del loro. A cominciare da quello dello Scià Pahlavi, portato al potere da un colpo di stato organizzato nel 1953 da Stati Uniti e Gran Bretagna contro il governo del progressista Mohammad Mossadeq, reo soprattutto di aver nazionalizzato l’industria petrolifera, sino a quel momento controllata dalle multinazionali occidentali. La dittature dello Scià filo Usa finì nel 1979, con la rivoluzione che portò al potere un’autocrazia clericale sostenuta da un’élite militare che tuttora possiede e controlla ampi settori dell’economia. A contribuire alla rivolta popolare contro lo Scià fu anche il progressivo deteriorarsi delle condizioni economiche, nonostante il supporto al monarca da parte delle potenze occidentali.
A strozzare l’economia del paese sono pure le sanzioni occidentali, da lungo tempo in vigore, che limitano fortemente l’export e complicano l’accesso del paese a tecnologie strategiche. Si stima che solo nell’ ultimo decennio le misure punitive abbiano sottratto al paese 10mila miliardi di dollari.
Inoltre gran parte della ricchezza che il paese produce viene prosciugata per le spese destinate all’esercito e alle organizzazioni legati alle elite dominanti. I soldi che finiscono alle grandi fondazioni religiose rappresentano il 30% della spesa pubblica totale. Il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC) controlla circa un terzo dell’economia iraniana attraverso filiali e trust. L’IRGC possiede oltre cento società con un fatturato annuo di 12 miliardi di dollari. Ottiene la maggior parte dei principali progetti infrastrutturali. Nel 2024 ha ricevuto 12 miliardi di euro, pari al 51% di tutti i ricavi derivanti dal petrolio e dal gas.
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