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Dopo i leoni, ora ci sono i piagnoni da tastiera

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«Nell’Occidente edonistico, la sofferenza è diventata, paradossalmente, un nuovo culto che lascia attoniti. Un tempo era la sorte comune della condizione umana; ora è un passaporto che ostentiamo per impressionare i nostri contemporanei. Ci fornisce un’identità presa in prestito, trasformandoci in esseri eccezionali che possono giganteggiare senza troppa fatica agli occhi del pubblico. È questo il messaggio del nostro tempo: siete tutti diseredati e avete tutti diritto a piangervi addosso. Il sogno ultimo sarebbe diventare martiri senza aver mai patito altro che la disgrazia di essere nati». Basta affacciarsi per un attimo sul mondo reale per rendersi conto di quanto siano vere e sensate le parole di Pascal Bruckner. Pensatore francese dei più scorretti, difensore di una idea nobile e magnanima di Occidente, ha scritto alcuni dei pamphlet più roventi ed efficaci degli ultimi decenni.

Ha preso di mira le esondazioni del politicamente corretto, la cultura della cancellazione che colpisce soprattutto i maschi bianchi, e ora torna con quella che forse è la conclusione del suo percorso nelle debolezze occidentali. La tendenza alla censura, il fastidio per la pluralità delle opinioni e il dissenso, il risentimento feroce che si riversa sui social network nasce da lì: dalla nostra tendenza all’autocommiserazione. In Povero me! (Guanda), Bruckner va alle radici della postura vittimistica oggi dominante. L’attenzione per le vittime e gli oppressi sorge con il cristianesimo, nota l’autore francese. Ben presto quella che nasceva come una attitudine positiva si corrompe. «Nel bene e nel male siamo gli eredi della rivoluzione cristiana, che negli ultimi due millenni, spesso contro il parere delle Chiese, ha dato fondamento ai diritti delle donne, dei bambini, degli sfruttati, degli schiavi e dei colonizzati. Ma su questa invenzione si è poi innestata una strategia secondaria: il vittimismo, che si osserva tanto a livello personale quanto a livello degli Stati e che sembra più forte nei Paesi ricchi, dediti ai piaceri materiali e strutturalmente insoddisfatti della loro sorte», scrive Bruckner. «Il nostro pantheon è composto interamente da persone afflitte o tormentate. Sono le sole con cui possiamo simpatizzare, e ne troviamo di nuove ogni giorno. È la nostra grande passione democratica: anche i privilegiati vogliono giocare a fare i maledetti. La libertà, la capacità di ciascuno di vivere come meglio crede, è soprattutto il permesso, dato a tutti, di lamentarsi del proprio destino».

La vittima, afferma Bruckner, è il nuovo eroe, e smentirlo è complicato. «La parola vittima è polisemica: essere il bersaglio di un furto o di uno stupro, di un incidente o di una tortura non è la stessa cosa. Ma in questo campo si fa in fretta a estremizzare, il che favorisce la confusione», spiega. «Ciascuno equipara la propria condizione a quella di chi è più colpito. «Rispettate il mio dolore» chiede il cittadino. «“Dimostraci che stai soffrendo”, gli rispondono lo Stato, le compagnie di assicurazione, l’opinione pubblica e i media. Che fare di coloro che non soffrono abbastanza, né troppo poco, in altre parole, la maggioranza? Tradizionalmente, lo status di vittima si otteneva dagli storici o dalla giustizia: i primi descrivevano la realtà di un massacro, i tribunali ufficializzavano questa realtà e ne traevano le conseguenze. Erano i tempi lunghi del riconoscimento pubblico, spesso sancito dagli Stati o dai governi attraverso cerimonie ufficiali».

Oggi, però, il quadro è cambiato radicalmente: «In un’epoca di impazienza amplificata dai social network, gli individui vogliono autoincoronarsi martiri, velocizzando il processo. Si prendano, per esempio, i grievance studies sorti negli Stati Uniti, dipartimenti universitari dedicati alle lagnanze provenienti da ogni sorta di categoria, persone grasse, donne, minoranze, queer, lesbiche, trans ecc. che si attribuiscono questo titolo a priori, per così dire. Gli armeni, i deportati, gli schiavi, i colonizzati, gli harki algerini, gli omosessuali, hanno dovuto scalpitare a lungo prima di vedersi riconosciuti. Nessuno ha più il coraggio di aspettare, vogliamo essere riconosciuti immediatamente come reietti».

Il vittimismo, a queste condizioni, diventa una malattia. Esso, dice Bruckner, è «un’identità narrativa che attribuiamo a noi stessi e che ci aspettiamo sia confermata dagli altri. È una patologia del riconoscimento, il desiderio di essere identificati senza doversi presentare. L’intensa epopea eroica del XIX e del XX secolo ha lasciato il posto all’intensa fantasia vittimistica del XXI secolo come conseguenza di tre capovolgimenti. La frenetica ricerca della felicità si trasforma in frenetica ossessione per la tristezza. La sofferenza annette al suo impero territori sempre più ampi anche in aree che sfuggivano alla sua giurisdizione. E la promessa democratica, sempre delusa, esaspera l’insoddisfazione ponendo la lamentela al centro della psicologia contemporanea. In altre parole, l’ideologia vittimistica commette un triplice peccato: scredita lo stoicismo spontaneo di ciascuno di fronte al male; inverte le priorità e col pretesto di proteggere i vulnerabili introduce di soppiatto false vittime che mettono in ombra i veri dannati; infine, diventa un alibi per gli assassini che indossano le sue vesti per commettere i loro crimini».

Ecco la terribile conseguenza della società dei perennemente offesi e dei vittimisti: il risentimento che gronda dai loro cuori si trasforma in desiderio di vendetta, in violenza. Come ha scritto il filosofo Byung-chul Han, l’Occidente rifiuta il negativo, la sofferenza, il dolore. Ha paura della fatica e della difficoltà, che però sono caratteristiche ineliminabili dell’esistenza. Qui sta il punto: se si è inadatti a sopportare la fatica, il solo fatto di stare al mondo ci qualifica come vittime. Vittime delle difficoltà che qualunque essere umano, da che mondo è mondo, deve attraversare e che noi però rigettiamo. Il risentimento dilaga, e produce conseguenze terribili: «L’inclinazione naturale di qualsiasi persona perseguitata, una volta salita al potere, è di trasformarsi in persecutore», dice Bruckner. «Il vittimismo è guerrafondaio: più ci si autocommisera, più ci si sente giustificati a punire coloro che designiamo come nemici. Le lacrime sono gonfie di rabbia e rancore. La preoccupazione per gli umiliati è la grandezza dell’umanesimo. La vittimizzazione come ricatto verso gli altri è il contrario di questo progresso. Il suo stadio finale è la rimozione dei veri sfortunati a tutto vantaggio di paria carnevaleschi che si affermano solo grazie alle loro reti di conoscenze e alla loro notorietà. Imparano a parlare la lingua degli oppressi per usurpare una posizione. Ingaggiano una guerra contro le parole, le prendono in ostaggio, le rapiscono. Da un capo all’altro della scala sociale, ognuno brandisce il proprio attestato di maledizione per innalzarsi al di sopra dei propri simili. Strana figura quella del miserabile di professione che pullula nei nostri Paesi in tutte le classi sociali. Come faremo a distinguere i disonesti e gli imbroglioni dagli altri?».

Già: distinguere è molto difficile. Anche perché siamo pieni di minoranze lamentose che presentano le loro pretese come diritti, di false vittime che tolgono la scena alle vittime vere, le quali spesso - annichilite da un dolore potente e reale - stanno silenti. Se il cristianesimo ha nobilitato le vittime (quelle vere però), «il messaggio dell’Illuminismo e della Rivoluzione, quello di un mondo migliore libero dal fatalismo e dal fanatismo, si è tradotto in una società dei singhiozzi e della fragilità, in altre parole della rassegnazione». Essere vittime è comodo perché lo «status di paria permette di cumulare potenzialmente tutti i diritti, in particolare il diritto di accusare e opprimere in nome delle proprie ferite». Carnefici e vittime, di conseguenza, si sovrappongono patologicamente: «Tanto l’eroe quanto la vittima producono unanimità, ciascuno a modo suo. Mentre il primo rassicura una società in preda al dubbio, il secondo rifonda il contratto sociale attraverso le sue lacerazioni. Entrambi hanno bisogno di un pubblico adorante. Ci circondiamo di sfortunati proprio come esaltiamo i coraggiosi che rafforzano la nostra immagine. Ma ci abbuffiamo anche, inorriditi e insieme affascinati, dei mostri che uccidono sadicamente o si travestono da martiri per commettere i loro crimini». È l’inversione finale: nella società delle vittime i boia trionfano.