Trump è pacifista solo fintanto che gli torna utile ma poi…
Una cosa mai vista! Uno scandalo internazionale! Una pericolosa deviazione dall’etichetta diplomatica come la si conosceva finora!
Di frasi a effetto come queste se ne potrebbero aggiungere tante. Ogni organo di informazione di mezzo globo è andato a nozze con il patetico siparietto che manco il vaudeville di un secolo fa avrebbe apprezzato e che, viceversa, è andato in onda in mondovisione dallo Studio Ovale della Casa Bianca: Zelensky – uno che di avanspettacolo si intende – contro Trump – che, se la politica dovesse andargli malissimo, un posto assicurato in un localino di Broadway o in un reality show adeguato lo troverebbe subito. E il vicepresidente Vance a fare da Pinotto al Gianni presidente.
Ci sarebbe quasi da ridere se non fosse tutto vero e se l’unica carnevalata non fosse l’ennesima presa per i fondelli del mondo intero. Eppure, praticamente nessun osservatore della politica internazionale, per lo meno qui in Italia, si è preso il tempo e una boccata corroborante di ossigeno per soffermarsi su un quesito: è davvero cambiato radicalmente qualcosa nelle scelte degli USA in politica estera?
Ho come la sensazione che il teatrino andato in scena sia l’ennesimo fumo negli occhi dell’elettorato americano – che, peraltro, per altri tre anni, di elezioni non si occuperà – e di quello europeo. Certo, un Trump che fa Trump, ovvero l’istrione per eccellenza, e che si concentra sulla mise da condottiero che ha reso da qualche anno Zelensky immediatamente riconoscibile; uno Zelensky che alza la voce e sembra quasi pronto a scattare e a mollare un ceffone a Trump; e, per finire, un vicepresidente – figura quasi sempre assente nei momenti che contano della storia americana – come Vance che fa il poliziotto cattivo di turno, dando la sensazione di imitare la controfigura cattiva di Putin, quel Medvedev che sembra sempre un passo avanti rispetto allo zar di San Pietroburgo nelle sparate e nelle minacce, hanno fornito uno show che non si era praticamente mai visto. Ma siamo davvero convinti che la politica estera americana abbia preso distanze così nette da quella precedente al secondo mandato trumpiano?
A me non sembra. Nessuno, secondo Trump, può avere l’ardire di mettere in discussione le scelte del padrone. Non è una novità. Chi ha mai tentato di farlo, ne ha pagato duramente le conseguenze dalla Seconda Guerra in poi: isolato a livello internazionale, appesantito da sanzioni brutali o, addirittura, attaccato militarmente. Qualche nome? Vietnam, Iraq, Afghanistan? E ora Ucraina? Guerre combattute con militari americani sul campo, le prime, e con l’invio ingente di armamenti USA, la seconda. Tutte conclusesi nello stesso modo: rapida ritirata quando l’esito del futile conflitto era segnato e smobilitazione assoluta, con l’abbandono del paese a se stesso e disastri su disastri a venire. Insomma, una politica estera usa e getta, di stampo meramente utilitaristico, nonostante il vessillo della democrazia e della libertà globali da sventolare con orgoglio, accecando del tutto l’opinione pubblica. D’altro canto, Kissinger un giorno disse che “Essere nemici degli USA può essere pericoloso, ma esserne amici è fatale”. Non è cambiato nulla. È cambiata solo la forma.
Dunque, veder trasecolare pubblicamente fior di giornalisti e politici – soprattutto, ma non solo, di destra – di fronte allo sfoggio di cattivo gusto da parte di Trump, Vance e, mi sento di dire, pure Zelensky, è particolarmente ridicolo. È proprio l’atteggiamento clownesco del tycoon, oltre alla timidezza se non al completo fallimento delle politiche del suo predecessore Biden, ad avergli garantito il ritorno alla Casa Bianca. È esattamente quel suo essere fintamente trasparente, quel suo rivolgersi al pubblico in maniera diretta, senza apparenti filtri, ad avergli fatto guadagnare enormi consensi presso l’americano medio. La sua capacità di semplificare cose che di semplice non hanno nulla e di elargire munificamente risposte a problemi quasi irrisolvibili se non, addirittura, inesistenti è o non è la definizione stessa del populismo? E l’americano medio – più dell’italiano, dell’europeo e forse, pure, dell’africano e asiatico medio – non ha davvero gli strumenti per capire cosa stia combinando il suo leader. Altrimenti, non ci si spiegherebbe come, all’improvviso, il belligerante popolo americano si sia stufato di cercare insistentemente un nemico nel popolo russo. Ai più sfugge che all’americano medio non frega assolutamente nulla se il suo governo decide di bombardare questo o quel paese, perché è convinto che, se lo fa, una ragione ci deve essere. Quale sia questa ragione non è fondamentale saperlo. Soprattutto per gli americani. Ed ecco che Trump in campagna elettorale è riuscito a convincere l’elettorato che la guerra in Ucraina è un male per l’America. Perché? Perché costa tanti soldi. Non perché porti lutti nelle famiglie. Se ci si pensa è davvero diabolico: per la prima volta da ottant’anni a questa parte non un solo militare americano ha perso la vita in guerra, eppure, per la prima volta dalla guerra del Vietnam, il popolo si è lasciato convincere a invocare la fine delle ostilità.
È questa la vera differenza.
Per il resto, non inganniamoci: Trump è pacifista solo fintanto che gli torna utile. Non mi sorprenderebbe un colpo di testa bellico per dimostrare al suo popolo che, se serve, anche lui sa essere condottiero. Ai danni di chi, non posso saperlo.
Per il resto, gli USA dettavano l’agenda del mondo occidentale prima come intendono farlo ora. Solo che con Trump, Vance e, per giunta, Musk, il velo di finzione – qualcuno direbbe la vaselina antibruciore – non serve più. Insomma, la maschera è stata gettata.
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