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La vita ha solo un senso: la morte. La bara non bara!

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Se la vita avesse un senso mi sarei già ucciso da parecchio tempo. In realtà un senso c’è ed è un senso unico: la morte. La morte non conferisce un vero e proprio senso alla vita, più che altro la morte dona un’infinita leggerezza ad ogni nostro attimo: siamo tutti vivi per miracolo. Appesi a un filo, ma un filo dorato. Tutto splende di una insensatezza radicale. Ama e fai ciò che vuoi, diceva qualcuno, ma anche l’amore è solo una gigantesca scusa per sondare la temperatura interna dei corpi. Tutto svanisce e quindi tutto è sogno.

C’è solo un modo per stare al mondo con dignità: l’atto oblativo. Dare, donarsi senza aspettarsi nulla in cambio, nemmeno un sorriso o un grazie. Un atteggiamento simile può essere considerato insensato in una società preda dell’utile e del conseguimento di uno scopo, ma è proprio questa insensatezza a donare splendore e aristocrazia ontologica all’essere umano liberato dall’egoismo e dai mostri del profitto. Una vita senza profitto, abbandonata a se stessa, una vita che ha solo tempo da perdere, che non deve mai scappare come se fossimo una sorta di criminali in fuga, una vita che si concede perché non ha “nulla da fare” e quindi ha paradossalmente tutto da disfare. Una vita poetica e la poesia è la cosa più inutile che ci sia, per fortuna. Essere inutili, inadeguati, fuori posto, improduttivi, sono tutti segni distintivi di una vita insensata, meravigliosa, inconcludente. Il falegname, il panettiere, l’agente di cambio, il ragioniere, il private banker, l’ortolano, l’assicuratore, il chirurgo, l’avvocato, il manager, il giornalista, il prete, il politico, l’artigiano, il regista, l’idraulico, il contadino, il poeta, il folle, l’alcolizzato, il giudice, l’amante, il traditore, l’animalista, il carnivoro, il vegetariano, il ladro e l’anestesista, il letterato, il dentista e il dantista, il cantante, il ricercatore, l’innamorato e l’egoista, l’inventore e lo straccivendolo, la casalinga e l’imprenditore, il cittadino, l’eretico, chi più ne ha più ne metta, il morto e il vivo alla fine dei conti, l’esile confine tra cadavere e respirante.
Finiremo tutti in un portacenere o in una nuvola di polvere. L’unica cosa che non ci inganna è la morte: la bara non bara.

E in questo tripudio di insensatezza, in questo sfolgorio d’evanescenza, non esistono pesi morti o pesi vivi: l’amministratore delegato. abbronzato e smagliante, ha lo stesso valore del debosciato o del pensionato che fa la spesa alle undici del mattino. Non esistono gerarchie sociali che non siano frutto di una ridicola ipocrisia o di un malinteso furiosamente idiota. La ballerina e lo storpio, la bella e la bestia, l’arte fiamminga e i fiammiferi, il flauto e la flatulenza, il timore maligno e il tumore benigno, l’oca e il fegato, il pompiere e l’abisso, il bergamasco e il bergamotto, tutte le distinzioni di questo mondo finiranno nell’indistricabile nulla, nel vortice nullificatore del niente più annientante. L’assoluto e il pidocchio. Non c’è scampo, e nemmeno gambero. Tutto è assurdo, anche il sordo, il sardo e la sardina. Bisogna vivere fino alla fune, perché siamo sempre sul precipizio. Sempre.

E ricorda: non è il sole a sorgere, sei tu. Sorgi e insorgi contro chi ti vuole ridurre a numero, a cosa, contro chi vuole metterti il prosciutto sugli occhi vegani vaganti, contro chi vuole ridurre all’osso il tuo paradosso. Sorgi e insorgi. In principio era il Nerbo. Frusta tutto ciò che è banale. Non ustionarti con le equazioni di terzo grado, e se invecchi non farti scappare la pipì, tienila al guinzaglio. Ti tramo, disse il complottista alla sua donna. Auguri e fogli maschi allo scrittore indebolito. Bergonzoneggia nel mondo, non lasciarti alludere da nessuno, gioca con le parole, con il canto e il disincanto.

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