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Pruzzo: “Roma-Lecce? La storia delle scommesse è una cavolata. Il rimpianto più grande fu lo scudetto tolto col gol di Turone. Falcao col Liverpool? L’ho perdonato…”

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NOTIZIE AS ROMARoberto Pruzzo, ex attaccante della Roma, ha rilasciato una lunga intervista all’edizione odierna della Gazzetta dello Sport (A. Di Caro). Ecco le sue parole:

Roberto, sono passati 39 anni da Roma-Avellino 5-1.
“Sembra ieri, che giornata! E che palle il tempo che passa. Ma lo sai che nessuno mi chiama più Roberto? Era rimasta solo mia madre, se per strada sento il mio nome neanche mi giro, da quasi cinquant’anni per tutti solo il “Bomber”, anche per mia figlia”.

Riavvolgiamo il nastro di quella partita e di quella stagione.
“Basta una gara per capire di quale campionato parliamo: Roma-Lecce. Era la stagione 1985-86, faticammo all’inizio accumulando un distacco dalla Juve di 8 punti, quando la vittoria ne valeva due. Io nel girone d’andata giocai poco e feci appena due gol. Nel girone di ritorno mi scatenai e in 13 partite feci 17 reti, di cui 5 contro l’Avellino. Divenni per la terza volta capocannoniere con 19 gol davanti a Rummenigge con 13. Platini 12 e Maradona 11. Giocavamo un calcio meraviglioso, moderno, a mille all’ora: recuperammo lo svantaggio ma poi alla penultima giornata contro il Lecce già retrocesso… Non me lo far ricordare…”.

Qualcuno ricamò sul quel 2-3, si fantasticò anche di scommesse sul risultato del primo tempo.
“Str***ate. Nello spogliatoio della Roma non si cazzeggiava. C’erano personalità forti, io ero uno dei leader. Se qualcuno avesse fatto qualcosa di sbagliato, non ne usciva vivo. Semplicemente quella partita fa parte delle follie del calcio, quello che lo rendono imprevedibile e affascinante. Eravamo sicuri di vincere, Lo Bello ci annullò il 2-0 e neanche protestammo. Nel Lecce entrò il portiere di riserva, Negretti, e fece il mostro. Una gara stregata: noi ci finimmo dentro e fu un casino”.

E’ il più grande rimpianto della sua carriera?
“No, c’era stata l’incredibile rimonta e la squadra arrivò stanca, anche se fermarsi sul traguardo fu terribile. Di delusioni e ingiustizie ne ho vissute altre: lo scudetto che ci fu tolto nel 1981 col famoso gol di Turone. E in Nazionale Bearzot mi negò almeno due Mondiali: già nel 1978 in Argentina ero forte e restai fuori, poi nel 1982 in Spagna per tenere tranquillo Rossi al rientro dopo il calcio scommesse portò Selvaggi meno scomodo di me che quell’anno ero stato capocannoniere. Lo stesso avvenne in Messico nel 1986 con Galderisi, quando io facevo gol pure bendato…”.

E poi c’è Roma-Liverpool.
“La Coppa dei Campioni persa in casa ai rigori è la ferita che ancora sanguina dopo 40 anni. Io segnai il gol dell’1-1 nel primo tempo e poi uscii al 63′”. Si disse per problemi di stomaco. “Ma quale dissenteria, presi un violento calcio sulle pa**e, da sotto con la punta dello scarpino: io già correvo poco, dopo quel colpo non riuscivo più a muovermi. Ai rigori io ero fuori, Cerezo uscì per crampi, Maldera era squalificato, Falcao non se la sentì. E sbagliarono Conti e Graziani”.

Il gran rifiuto del “Divino”: l’ha perdonato?
“Certo, anche chi come Paulo Roberto in campo era Divino può avere delle debolezze”.

Lei però è ugualmente nella storia del calcio italiano e della Roma.
“Se oltre a uno storico scudetto e 4 Coppe Italia avessi vinto altri due scudetti, un Mondiale e una Coppa dei Campioni, sarei stato anche un’icona a livello internazionale. Vuol dire che doveva andare così. La mia carriera è stata un cerchio: ho segnato contro la Roma il primo gol e l’ultimo. In mezzo dieci anni in giallorosso, la mia vita”.

Ma “Er gol di Turone era bono”, come recita il titolo di un recente e premiato docufilm?
“E me lo chiede? Certo che era buono. Non c’era bisogno del Var. Misi io di testa il pallone in mezzo per l’arrivo di Ramon che veniva da dietro e segnò in tutto. Era valido: quando lo rivedo mi inc***o”.

Un ricordo di Viola e Liedholm?
“Il Presidente vedeva più lontano di tutti, costruì la Roma tassello dopo tassello. Mi voleva bene, dopo le trasferte tornavo spesso in macchina con lui, la prima cosa che mi chiedeva era: “Come è andato l’arbitro?”. E io anche se non era successo niente: “Una me**a, Presidente, questi ci massacrano sempre”. Liedholm era un genio, sapeva scegliere gli uomini, dava serenità e ti faceva credere di essere sempre più forte di quello che eri. Un giorno mi sbagliai e indossai il suo cappotto che era uguale al mio, nelle tasche c’erano corni e amuleti contro la jella”.

Fonte: Gazzetta dello Sport

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