Duetti #20: Serani e Giuliberti, la poesia non va a capo
Quando nel 1958 Haroldo De Campos e i suoi Noigandres pubblicavano il Plano piloto para poesia concreta e dichiaravano la fine “del ciclo storico del verso” ovviamente pensavano prima di tutto agli esperimenti visivi (oggi qualcuno direbbe ‘installativi’) della loro ‘poesia concreta’. Va detto, però, che almeno Haroldo, con il suo Galaxias, sembra muoversi, in buon anticipo su qualsiasi altro, lungo il sentiero di una poesia che, senza essere ‘poème en prose’, fa a meno del verso, in favore di blocchi di testo compatti che affidano completamente alla sintassi ritmica e allo slogamento semantico la loro identità poetica.
In Italia si devono agli esponenti di ‘Prosa in prosa’ i primi tentativi, alcuni formalmente assai ben riusciti, penso prima di tutto al recentemente scomparso Alessandro Broggi, di annullare il verso per costruire, sulle tracce del francese J. M. Gleize, una post-poesia, lontana sia dalle sperimentazioni performative che dalla lirica più corriva ed attardata.
Fatto sta che da qualche tempo sono sempre più numerosi gli esempi di opere che fanno volentieri a meno del verso, anche se, a mio modo di vedere, lungo strade diverse e a volte distanti da quelle indicate da Gleize e dai suoi corrispondenti italiani, più vicine a quelle di altro grande autore francese contemporaneo, J. P. Courtois, di cui recentemente è uscita la prima traduzione italiana, Imballaggi, per Argolibri, un autore la cui vicinanza al De Campos di Galaxias è, per molti aspetti, irrespingibile.
È in questo ambito che si collocano due esordi di notevole interesse, quello di Chiara Serani, Dialoghi della sedia – Azioni a più voci (Ed. Anterem, 2023) e quello di poco successivo di Laura Giuliberti con Paraìso (Arcipelago Itaca, 2024), due opere che, oltre a fare a meno del verso, hanno in comune l’essere operazioni di détournement schiettamente situazionista.
Al centro dei Dialoghi della sedia, del libro quanto della scena virtuale rappresentata, sta una donna seduta su una sedia – e il riferimento al beckettiano Murphy è così evidente da essere sinora sfuggito ai recensori. Un Murphy al femminile, che non parla, ma agisce il suo corpo seduto, a volte seminudo, a volte legato, o in equilibrio precario, dedito a pratiche masochiste, o a quotidianità apparentemente insensate, in un susseguirsi di scene che mescolano erotismo, ironia, distacco, sarcasmo, rabbia, abbandono e (beckettiano) misunderstanding. Il dialogo, però, non è quello tra due attori (ché in scena c’è sostanzialmente sempre lei, l’entità femminile che dice io e declina i verbi in prima persona) ma quello tra la scrittura poetica di Serani e i frammenti – apparentemente irrelati, o apparentemente relati – che vi si accoppiano sulla pagina. Si tratta di lacerti dalla provenienza la più diversa, dalla Bibbia alle istruzioni di un gioco da tavolo, che spostano di lato, con procedimento radicalmente metonimico, il significato sino ad allora costruito dal testo, moltiplicandolo in un senso sempre ambiguo ed allusivo, plurale.
Ciò che noi leggiamo è sostanzialmente il referto di quest’io che scrive guardandosi agire, senza reclamare alcun senso a ciò che fa. Semplicemente refertandolo. Il contatto con i materiali allotri crea, però, un détournement intensissimo, moltiplicando il senso del lacerto precedente. Ciò che si descrive non è tanto l’azione scenica, quanto la capacità del linguaggio di tradurla in parole, sempre tradendola. Un teatro del gesto che si fa linguaggio soltanto sulla pagina: resto, o maceria di un’azione, di una ‘situazione’ ormai compiuta, i cui riverberi, fatti di parole, restano a scintillare sul foglio. Irrappresentabili, se non sulla pagina. Di versi ce ne sono pochissimi, sostanzialmente quelli di una vecchia filastrocca popolare e poco altro, eppure sono pronto a scommettere che a chiunque lo leggesse sarebbe evidente che non si tratta di un testo teatrale, o di prosa, quanto, assolutamente, di poesia. E di poesia di notevolissima e irrespingibile qualità.
Differente, ma altrettanto convincente, è il caso di Paraìso di Laura Giuliberti, un paradiso che poi è l’imperiese Parrasio, quartiere antico della città. Come ho avuto modo di notare, nella Nota che accompagna il libro, Giuliberti si confronta con uno dei temi più usati del poetico, il paesaggio, ma lo fa per ribaltarlo, tradirlo, trasportarlo oltre la descrizione, fino ed oltre il fondo dello sguardo. Paraìso è sostanzialmente una falsa mappa del Parrasio, una mappa “fatta per perdersi, una cartografia del sé sotto le mentite spoglie di una topografia del luogo, una carta geografica che la mancanza d’ogni legenda attendibile rende ambivalente carta poetica, la descrizione di una geografia in cui la terra e il suo geografo sono, in realtà, la stessa cosa”.
Nel caso di Giuliberti il riferimento al situazionismo è poi dichiarato assieme a quello a L. Zukofsky e alla sua traduttrice francese, A. M. Albiach, alla ricerca di una parola capace di farsi epifanica, poiché questo è infine la poesia per Giuliberti: l’improvviso apparire di ciò che prima non c’era e, prima della parola, neanche ‘era’.
Questo testo è un vero e proprio, riuscitissimo, esperimento di psicogeografia situazionista, pronto a mutarsi in ogni istante in détournement, un’analisi degli effetti che il contesto geografico ha sull’affettività di chi lo esperisce. Paraìso è, sostanzialmente, il ‘procès verbal’ di una ‘situazione’ nel suo significato più profondo: del situarsi del sé nell’altro da sé, attraverso una serie di ‘movimenti’ linguistici che non possono che essere atti poetici. Perché l’unico paesaggio che davvero interessa a Giuliberti è quello del linguaggio e del suo farsi vita e realtà. Ma di versi, anche qui, ce ne sono pochi, per quanto molto belli: cerniere e serrature dei luoghi geografici e poetici che fanno la maggior parte del testo. Ma che si tratti di poesia è, in ogni caso, indubbio.
Due libri insomma che mi hanno confermato nella mia convinzione che la poesia, prima che stile, lessico (letterario) e, soprattutto, verso stia tutta nella sintassi. Che si vada a capo, o meno, poco conta.
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