La dottrina sociale della Chiesa è più vitale che mai. La partecipazione è una prospettiva, non uno slogan
In un tempo complesso – qual è quello odierno – di passaggio e di “ricostruzione” sociale e culturale anche la dottrina sociale della Chiesa può svolgere un ruolo importante. A patto di coglierne l’essenza, non limitandosi alla mera denuncia sociologica, quanto piuttosto individuando efficaci contromisure, come era stato nel passato, a partire dall’Enciclica Rerum Novarum (1891) emanata da Leone XIII, frutto di un complesso lavorio intellettuale, che aveva coinvolto la cultura cattolica dell’epoca, alternativa al giacobinismo e alla rivoluzione liberal-borghese. Avendo al centro il ricostruito ordine corporativo, inteso – per dirla con Giuseppe Toniolo, il maggiore esponente del pensiero cattolico sociale di fine Ottocento – non certo con finalità di mera restaurazione, ma quale strumento rappresentativo della società reale, dalla famiglia al Comune alle professioni.
Alla dottrina sociale della Chiesa, “Cristianità”, organo ufficiale di Alleanza Cattolica, dedica ora l’ultimo numero in distribuzione (n. 429, settembre-ottobre 2024), che raccoglie una sintesi degli interventi ed alcune relazioni complete del convegno, tenutosi il 28 settembre 2024, con al centro la figura di Giovanni Cantoni (1938-2020), fondatore di Alleanza Cattolica, e la recente raccolta dei suoi Scritti di dottrina sociale. 1961-2005.
Il reggente nazionale del sodalizio, Marco Invernizzi, nel suo ampio excursus sulla storia della dottrina sociale della Chiesa ha centrato la sua relazione sulle due ultime fasi, relative al recepimento del magistero sul tema. La prima, tra Anni Sessanta e Settanta del ‘900, segnata dal processo di secolarizzazione esploso nel 1968 e dal tentativo di attuare un “compromesso storico” tra Partito Comunista Italiano (Pci) e Democrazia Cristiana, superando ogni preclusione all’accesso del Pci al governo del Paese. In questo “clima”, perché il “compromesso storico” si potesse realizzare era necessario – nota Invernizzi – trovare una giustificazione ideologica, mettendo da parte la stessa dottrina sociale, laddove “l’accordo fra le due forze politiche avrebbe dovuto prevedere un ‘compromesso culturale’, cioè una de-ideologizzazione reciproca, premessa a una sorta di fusione fra un cristianesimo privo della sua dottrina sociale e un marxismo senza materialismo dialettico, cioè senza ateismo filosofico”.
La “seconda fase” ha coinciso con il pontificato di Giovanni Paolo II e con la sua volontà di riprendere e rilanciare la dottrina sociale della Chiesa. Le sue tre encicliche esplicitamente sociali (Laborem excercens, Sollicitudo rei socialis e Centesimus annus), insieme all’indizione di un anno dedicato alla dottrina sociale, il 1991, nel centenario della Centesimus annus, finalizzato a segnalarne l’importanza per la Chiesa universale, non produssero però, dopo un iniziale entusiasmo, i frutti sperati.
La dottrina sociale, seppure segnata da una diffusa “disattenzione” sia all’interno della Chiesa Cattolica che presso gli ambienti ad essa affine (Università, sodalizi culturali, realtà associative, singoli intellettuali) rimane – sia chiaro – nel valore dei suo messaggio. Ma – come sottolinea Invernizzi, anche alla luce dell’impegno di Cantoni – “la dottrina sociale è come una pianta, antica ma sempre fragile, che ha bisogno di essere innaffiata cioè, fuori di metafora, ha bisogno che qualcuno la studi e la diffonda, affinché possa essere messa in pratica”.
La questione – in tutta evidenza – non è meramente “dottrinaria”, né deve riguardare la semplice “memoria”. Particolarmente oggi, allorché, in una fase di profonde trasformazioni economiche e sociali, si sente la mancanza di organiche indicazioni costruttive e ricostruttive, che sappiano declinare, sul piano degli istituti rappresentativi (a livello di azienda e di sistema Paese), il richiamo a principi extraeconomici; che indichino realistici meccanismi ridistributivi; che ridiano centralità ai corpi sociali, sfibrati da una sistematica opera di disintermediazione.
L’ auspicio è che dai principi e dalle denunce si passi alla realtà dura del lavoro quotidiano, finalmente affrancato dagli eccessi del mercato, della globalizzazione incontrollata, della precarietà cronica.
Come ammonì Giovanni Paolo II, nella Centesimus Annus (1991), in piena continuità con la Rerum Novarum, “Si può giustamente parlare di lotta contro un sistema economico, inteso come metodo che assicura l’assoluta prevalenza del capitale, del possesso degli strumenti di produzione e della terra rispetto alla libera soggettività del lavoro dell’uomo. A questa lotta contro un tale sistema non si pone, come modello alternativo, il sistema socialista, che di fatto risulta essere un capitalismo di stato, ma una società del lavoro libero, dell’impresa e della partecipazione. Essa non si oppone al mercato, ma chiede che sia opportunamente controllato dalle forze sociali e dallo Stato, in modo da garantire la soddisfazione delle esigenze fondamentali di tutta la società”.
A questo “controllo”, non solo etico, il mondo cattolico dovrebbe avere ancora il coraggio di appellarsi, proprio nel nome del mai abbastanza ricordato modello partecipativo: ben più di uno slogan o di un mito suggestivo, ma una concreta prospettiva per ricostruire l’auspicata integrazione sociale, vera risposta alla condizione di un mondo spaccato a metà, tra chi ha molto e chi stenta a vivere, tra chi si sente “integrato” e chi invece escluso.
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