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Libia per metà base russa e per l’altra protettorato turco: qualcuno avverta Giorgia Meloni

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Finalmente se ne sono accorti. Ma stavolta non vale il vecchio adagio “meglio tardi che mai”. Perché i giochi sono fatti. E a Giorgia Meloni non resta che provare a spacciare, con la complicità dell’informazione mainstream, tragicomica parodia dell’Istituto Luce di fascistica memoria, una disfatta in una vittoria (sic) per l’Italia. Che in Libia, l’Italia non tocchi palla da tempo, Globalist lo ha scritto, documentato ripetutamente in questi anni. E, sia detto chiaramente, questa marginalità non nasce col governo Meloni. Nel Mediterraneo non contavamo niente neanche durante i governi Renzi, Conte 1 e Conte 2, Draghi. La novità introdotta dal governo Meloni è l’insopportabile retorica nazionalista, fondata sul nulla, con cui si spaccia un protagonismo inesistente, o comunque del tutto inefficace, del nostro Paese nel Mediterraneo. In particolare, in Libia, dove a dettar legge sono altri player: Turchia, Egitto, Eau, Qatar, solo per citarne alcuni. A cui si aggiunge la Russia sbattuta fuori dalla Siria dopo il tracollo del regime di Bashar al-Assad.

È scattato l’allarme

Scrive su La Stampa Francesco Grignetti, tra i giornalisti più informati sulle segrete cose dei nostri servizi: “C’è grande allarme negli apparati italiani più sensibili al quadro geopolitico. Tra la Libia orientale in mano al generale Haftar e la Siria di Assad c’era e ancor più oggi c’è un canale aperto. Il patron comune è Putin. E ci sono evidenze di intelligence che i russi stiano spostando in Cirenaica materiali militari che avevano in Siria. Quasi un ponte aereo tra le basi siriane e quelle della Libia orientale. In particolare, pare che nella base di al-Jufra siano arrivati armamenti sgomberati in tutta fretta da Tartus, che era il porto più importante della marina russa nel Mediterraneo .Che i russi abbiano in uso almeno tre basi aeree della Cirenaica è noto da più di un anno. Sono aeroporti che al tempo di Gheddafi erano dell’aviazione libica; ora sono russi a tutti gli effetti e servono alle forze armate di Mosca come basi militari per garantire supporto aereo al generale Haftar, ma anche come indispensabile snodo logistico per i soldati che i russi – ufficialmente o no – hanno piazzato in tanti Paesi sub-sahariani.


Una di queste basi è al-Jufra. L’oggetto del desiderio di Mosca è il porto di Tobruk, però. Una piazzaforte che fin dai tempi della Seconda guerra mondiale è cruciale per chi voglia ormeggiare grandi navi militari in Nord Africa. Finora i russi non avevano spinto a fondo per ottenere Tobruk, anche se vi si appoggiano spesso, ma solo perché potevano contare su Tartus in Siria. Ora però Tartus è però diventata insicura. È un’enclave che i nuovi potenti di Damasco ancora non controllano, ma ci manca poco. E comunque, senza un retroterra sicuro per sistemarvi ad esempio grandi depositi di carburante e di munizioni, il porto di Tartus ai russi serve a poco. Ecco perché Tobruk diventa una indispensabile alternativa.[…]Secondo fonti italiane, nei giorni scorsi i russi avrebbero messo al sicuro una serie di materiali che rischiavano di cadere nelle mani dei rivoltosi anti-Assad. Anziché portarli in patria, però, hanno preferito spostarli in Cirenaica. Nel pieno del deserto. Lì però non hanno utilità alcuna perché il loro scopo, dal punto di vista militare, è difendere un porto e le navi che vi si ormeggiano. Il trasferimento affannoso si spiega soltanto con la prospettiva di gestire il porto di Tobruk. E’ questa la vera partita in corso.

Il generale Haftar finora non ha concesso Tobruk ai russi, nonostante le richieste e le lusinghe. Sa probabilmente che è una scelta di campo definitiva e forse non è così deciso a rompere con l’Occidente. Già, perché quel porto ha una posizione strategica cruciale. Se davvero la marina militare russa vi si insediasse, ciò significherà una minaccia avanzata all’Italia e all’intera Alleanza atlantica. Non è un caso se nemmeno il dittatore Gheddafi ha mai ceduto su questo punto. Neppure quando l’allora Unione sovietica perse le basi militari in Egitto e cercò disperatamente un’alternativa in Medio Oriente.

Scriveva la rivista Nigrizia, che non sottovaluta l’aggressivo e sanguinario espansionismo russo in Africa, appena qualche settimana fa: “All’inizio di novembre, un Ilyushin-76, aereo militare russo, è stato ripreso tramite immagini satellitari presso la base di al-Jufra, dove atterrano regolarmente aerei cargo militari, così come caccia MiG-29 e bombardieri Su-24. Aerei da combattimento russi che aiutano il generale Haftar a mantenere il controllo del suo territorio. Gli esperti sentiti nell’inchiesta affermano che, sebbene l’equipaggiamento militare in arrivo resti a disposizione di Haftar, alcune forniture vengono dirette anche ad altri paesi africani.

Il Telegraph ha intervistato Tarek Megerisi, ricercatore senior specializzato in Libia presso l’European Council on Foreign Relations. A suo avviso nell’ultimo anno sono state consegnate migliaia di tonnellate di armi”. Il grande gioco dell’Africa e del Medio Oriente passano anche da qui”.

Il ruggito del coniglio

Da un lancio dell’Ansa: “Il primo ministro del governo di unità nazionale libico, Abdelhamid Dbeibah, ha espresso il suo rifiuto all’ingresso di qualsiasi equipaggiamento o forza militare russa in Libia proveniente dalla Siria.

Lo riporta The Libya Observer citando la partecipazione del premier a una sessione di dialogo all’apertura del Government Communication Forum, come parte delle attività dell’evento Tripoli Media Days.

A Dbeibah è stato chiesto della posizione del governo sull’ingresso delle forze russe provenienti dalla Siria nella Libia orientale, dopo la caduta del regime di Bashar Al-Assad, alleato di Mosca, l’8 dicembre. 

“Nessuna persona patriottica accetta l’ingresso di un paese straniero e l’imposizione della sua egemonia, e non accetteremo l’ingresso di alcuna forza straniera se non attraverso accordi ufficiali e allo scopo di addestramento. Qualsiasi parte che entri in Libia senza permesso o accordo verrà combattuta e non possiamo accettare che la Libia sia un campo di battaglia internazionale”, ha affermato Dbeibah, aggiungendo che il suo governo si è rivolto alla Russia in merito alle accuse di trasferimento di armi ed equipaggiamento militare dalla Siria alla Libia. Il premier ha precisato che il suo governo ha convocato l’ambasciatore russo e gli ha chiesto della dichiarazione dell’ambasciata russa in Libia, in merito all’avvertimento ai suoi cittadini di non recarsi in Libia, notando che “le forze di sicurezza hanno arrestato un turista russo in Libia dopo che è stato sospettato di aver commesso alcuni atti contro la sicurezza e immorali”. 
Sai che paura dalle parti del generale Haftar.

Ma quali “assistiti”. Sono rimpatri forzati

Sette organizzazioni hanno presentato ricorso al Tar contro il finanziamento concesso dal Ministero degli Esteri all’Organizzazione Internazionale per le Migrazione (Oim), destinato ai programmi di “rimpatrio volontario assistito” per centinaia di persone migranti che verrebbero così spostate dalla Libia al loro paese di origine. L’udienza cautelare al Tar del Lazio è fissata per l’8 gennaio 2025. In quella data il tribunale esaminerà il ricorso presentato da Asgi, ActionAid, A Buon Diritto, Lucha y Siesta, Differenza Donna, Le Carbet e Spazi Circolari.

Il comunicato

“Rimpatri volontari o espulsioni mascherate? Contestata la legittimità dei programmi di rimpatrio volontario dalla Libia Quasi un milione di euro per l’esecuzione dei rimpatri cosiddetti volontari. Dietro questa cifra, stanziata per una presunta giustificazione umanitaria, si nascondono espulsioni mascherate che violano il principio di non refoulement e gli obblighi di protezione dei minori e delle persone sopravvissute a tratta, tortura e violenza di genere. Il finanziamento oggetto del ricorso è parte di un totale di 7 milioni stanziati per il progetto Multi-Sectoral Support For Vulnerable Migrants in Libya. Da anni una parte dei fondi italiani destinati alla cooperazione allo sviluppo viene impiegata per finanziare politiche di esternalizzazione delle frontiere finalizzate a impedire l’arrivo in Italia di persone migranti. Risorse che dovrebbero sostenere lo sviluppo dei Paesi e tutelare le popolazioni più vulnerabili sono invece utilizzate secondo una logica di deterrenza e contenimento dei flussi migratori. Il prossimo 8 gennaio il Tar del Lazio si esprimerà sulla richiesta di sospensione in via cautelare dell’utilizzo dei fondi destinati ai rimpatri. Le criticità di questi programmi sono state evidenziate dal Relatore Speciale delle Nazioni Unite per i diritti delle persone migranti che ha sottolineato come un rimpatrio possa definirsi volontario solo se deriva da una scelta libera e informata, presa in presenza di alternative valide e senza alcuna forma di coercizione. Tuttavia, le condizioni in Libia rendono impossibile un consenso autenticamente libero e informato: numerosi rimpatri avvengono da luoghi di detenzione arbitraria dove le persone subiscono tortura, violenze sessuali e maltrattamenti. In tali condizioni, il rimpatrio è spesso l’unico modo per sottrarsi a questi abusi, nonostante spesso il ritorno nel paese di origine esponga le persone alle medesime condizioni dalle quali sono fuggite, quali violenza di genere, conflitti, discriminazioni sistemiche.

Nel 2022, l’Ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr), ha apertamente messo in dubbio la volontarietà dei rimpatri dalla Libia e ha invitato gli Stati Europei a non finanziare questi programmi in assenza di idonee garanzie sul rispetto del diritto di non respingimento. Nonostante questo, il Maeci ha rifinanziato tale misura contravvenendo alle raccomandazioni e tralasciando di valutare adeguatamente i rischi a cui l3 migranti sono espost3 in Libia e nei paesi di origine. Il Maeci non ha fornito informazioni riguardanti i centri di detenzione libici in cui sono stati realizzati i progetti né i documenti relativi a meccanismi di monitoraggio e garanzie sul rispetto dei diritti umani nell’attuazione dei programmi. I rimpatri volontari sono un tassello fondamentale delle politiche di esternalizzazione delle frontiere: a fronte del blocco delle partenze dalla Libia operato grazie al sostegno italiano alla cosiddetta Guardia Costiera libica, questi programmi aprono canali di mobilità forzata verso i paesi di origine, fornendo al contempo una legittimazione umanitaria alla cooperazione con la Libia. Sotto l’etichetta di “rimpatrio volontario” si celano vere e proprie “espulsioni mascherate” attraverso le quali persone che avrebbero diritto a forme di protezione vengono rimandate in paesi per loro non sicuri. Per questi motivi, le sette organizzazioni ricorrenti chiedono che venga immediatamente bloccato l’uso dei fondi italiani sul rimpatrio operato dall’Oim e che venga dichiarato illegittimo il finanziamento. 

Asgi, ActionAid, A Buon Diritto, Lucha y Siesta, Differenza Donna, Le Carbet e Spazi Circolari hanno presentato ricorso al Tar del Lazio contro il nuovo finanziamento del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (Maeci) all’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (Oim) per i programmi di rimpatrio cosiddetto volontario assistito dalla Libia verso i Paesi di origine”.

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