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Il folle diktat per l’auto elettrica

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Per rispondere ai diktat europei bisogna produrre meno, fermare gli impianti e mettere in cassa integrazione i dipendenti, se non licenziarli. Ed è quello che sta accadendo.

Con un amico concessionario d’auto in questi anni ho discusso spesso di macchine elettriche. La prima volta fu quando mi prestò per un giorno una vettura a batteria. La provai facendo un viaggio di un’ottantina di chilometri, confidando nel fatto che la casa automobilistica aveva garantito un’autonomia pari al triplo. Arrivato a destinazione mi resi conto che rischiavo di non tornare a casa, perché il cruscotto segnalava poco più di un’altra ottantina di chilometri a disposizione e dunque feci il percorso a ritroso con il patema di restare a piedi. Con un’altra macchina, che assicurava maggior autonomia, non ho avuto il brivido di rimanere a «secco», ma diciamo che lungo tutta la strada ho scrutato il livello della batteria per non avere brutte sorprese, pronto a una sosta tecnica alla ricerca di una stazione di ricarica.

Alla fine, ho detto al mio amico che l’auto elettrica non faceva per me. Almeno fino a che non avesse garantito una maggior tranquillità di utilizzo. Ricordo che in risposta lui mi confidò di pensarla come me. Sono passati un paio d’anni da allora, e il mio conoscente ha rinunciato a vendere vetture elettriche, per non sottostare alle imposizioni delle case automobilistiche, che spingono i veicoli a batteria più di quelli a motore, imponendo target che rischiano di strangolare la rete di vendita.

Intendiamoci, non è tutta colpa delle aziende. Come si è capito in questi giorni, con le dimissioni dell’amministratore delegato di Stellantis, i gruppi del settore subiscono a loro volta gli obiettivi fissati dall’Unione europea per ridurre le emissioni per chilometro percorso. In pratica, Bruxelles chiede che i parametri medi delle vetture immesse sul mercato da una casa automobilistica siano del 15 per cento inferiori rispetto al passato. Tutto ciò non fra dieci anni, quando i motori termici non potranno più essere prodotti, ma subito, cioè a partire dal prossimo gennaio. Pena pesanti multe, che secondo l’agenzia Reuters, raggiungerebbero per il solo 2025 i 15 miliardi di euro, pari all’intero utile di un gruppo come Renault.

Per non rimanere vittime di questa tagliola,i produttori hanno due possibilità. La prima è vendere più macchine elettriche, in modo da portare il saldo del gruppo dentro i parametri fissati dai burocrati della Ue. E questa soluzione è quella che ha indotto il mio amico concessionario a rinunciare alle vendite per dedicarsi alla manutenzione. Per raggiungere gli obiettivi fissati da Bruxelles infatti, è necessario piazzare il doppio delle auto a batteria vendute nel 2024, risultato che è irraggiungibile, per la semplice ragione che il mercato va nella direzione opposta. Cioè, invece di crescere, le immatricolazioni di vetture senza motore ma con la pila diminuiscono, perché superata la curiosità per i nuovi modelli, gli automobilisti si rendono conto delle difficoltà di ricarica, ma anche della scarsa autonomia. Dunque, mettendo sulla bilancia pro e contro, come per esempio il costo maggiore per l’acquisto non più compensato da un pieno alla spina più leggero, decidono di comprare le macchine con motore termico. Passare dal 16 per cento (è il caso di Volkswagen) al 36 come previsto, non è realistico, nemmeno se si stressa la rete di vendita inserendo clausole quasi vessatorie per spingere i concessionari a convincere la clientela.

La seconda soluzione, quella che non prevede un raddoppio della diffusione dei modelli a batteria, è la riduzione della vendita di auto a motore termico. Cioè, per rispondere ai diktat europei bisogna produrre meno, fermare gli impianti e mettere in cassa integrazione i dipendenti, se non licenziarli. Ed è quello che sta succedendo in tutta Europa, con chiusure di fabbriche che coinvolgono i principali marchi (Audi, Volkswagen, Ford) e numerosi fornitori (Bosch, Valeo, FZ, Continental). Più che una soluzione vi pare una follia? Anche a me, ma non mi stupisco.

L’Unione europea ci ha abituato a queste scelte: ricordate quando nel passato - si chiamava ancora Ceca, Comunità europea del carbone e dell’acciaio - voleva la chiusura degli altiforni, pronta a pagare pur di raggiungere lo scopo? O quando pretese a suon di multe che gli allevatori non producessero più di un certo quantitativo di litri di latte? Ecco, adesso siamo arrivati all’auto: alcuni alti papaveri di Bruxelles, con la condiscendenza di politici, i quali invece che al buon senso danno retta alle ideologie, stanno ripetendo gli errori già fatti con le acciaierie e con le stalle. Il risultato è che presto ci regaleranno non le proteste degli allevatori, ma la rivolta di decine di migliaia di nuovi disoccupati. Ah, dimenticavo: il mio amico ringrazia ogni giorno di aver avuto l’idea di rinunciare alla concessionaria.