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“Abbiamo ceduto il nostro territorio per accordi criminali, noi migranti come loro”: anche cittadini albanesi alla protesta contro il cpr di Gjadër

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Domenica 1 dicembre davanti ai centri di detenzione amministrativa per migranti voluti dal governo italiano in Albania, oggi per le strade di Tirana, alcune centinaia di persone, prevalentemente italiane e albanesi stanno contestando l’accordo Meloni-Rama che prevede il trasferimento collettivo e coatto di richiedenti asilo verso il Cpr (Centro di permanenza per il rimpatrio) di Gjadër attraverso un breve passaggio all’hotspot di Shëngjin.
I rifugiati dovevano essere 3mila, per ora sono arrivati in pochi e sono subito tornati indietro – commenta il giornalista albanese Elidon Ndreka, che ha seguito fin dall’inizio la propaganda sull’operazione – avrebbero dovuto portare soldi e lavoro e per questo hanno azzerato il dissenso locale, per ora ci hanno guadagnato molto in pochi ma qualcosa è arrivato anche al paese dove sorge il campo, dove da anni la principale entrata delle famiglie è rappresentata proprio dalla possibilità di emigrare”.
A oggi, le distese di container allestite nei due centri sono disabitate, la maggior parte degli operatori di polizia e della cooperativa che dovrebbe gestire il campo sono tornati in Italia e si respira aria di smantellamento. Eppure l’idea di realizzare, finanziare con una somma che viene stimata tra i 653 milioni al miliardo di euro, e mantenere questi centri fuori dal territorio comunitario ufficialmente non viene accantonata, malgrado le violazioni del diritto italiano e internazionale emerse e le difficoltà logistiche: “Il flop è sotto gli occhi di tutti, ma siamo venuti qui per dare il ‘colpo di grazia’ a questo protocollo di intesa”, spiegano dal neonato “Network Against Migrant Detention”, movimento internazionale che unisce diverse realtà che difendono la libera circolazione delle persone.
“Il patto tra Giorgia Meloni ed Edi Rama fino a oggi è stato un fallimento e credo ora stiano pensando a come riconvertire le strutture – riconosce Dorian Pali, avvocato residente nel paese sul cui territorio insiste il centro italiano – ma non è vero che gli albanesi sono tutti indifferenti a questa decisione del governo: molti come me sono contrari per motivi etici e legali. Certo c’è molta disinformazione, e pesa anche la povertà di questa zona. Quando sei povero non riesci a guardare oltre al proprio cortile perché l’unico problema urgente che devi risolvere è come portare qualcosa da mangiare sulla tavola”.
Dal punto di vista del rispetto dei diritti umani, le criticità coincidono con quelle già dibattute in Italia rispetto ai Cpr; la Costituzione albanese tanto quanto quella italiana non prevedono forme di detenzione oltre le 24-48 ore in attesa di reati e convalida di un giudice: “Definirla ‘amministrativa’ non cambia la sostanza di queste detenzioni – sostiene l’avvocato Dorian Pali, che aveva pure tentato di promuovere una causa contro l’istituzione del campo – C’è anche una questione di cessione di sovranità territoriale, perché queste aree sono state cedute all’Italia per cinque anni; non è una decisione che si poteva ratificare bypassando le consultazioni previste dalla legge albanese, ma il governo ha forzato la mano”. A oggi, dei 16 migranti trasferiti nel centro di Gjadër, quattro sono stati immediatamente fatti rientrare in Italia in quanto minori o vulnerabili, mentre per gli altri 12 i giudici italiani hanno negato il trattenimento, in applicazione della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che ha invalidato la lista italiana dei cosiddetti “paesi sicuri”.
Malgrado i costosi tentativi del governo Meloni, il piano che prevedeva che le persone intercettate in mare fossero trasferite in Albania senza possibilità di movimento autonomo, potendo spostarsi solo dal porto al CPR di Gjadër sotto scorta dei carabinieri italiani, sembra arenato. Le denunce si estendono anche alle condizioni di detenzione, giudicate non idonee dal punto di vista igienico-sanitario e insufficienti a garantire un’adeguata tutela dei più vulnerabili.
Tra gli attivisti presenti alle manifestazioni di ieri, davanti all’hotspot del porto di Shëngjin e al CPR di Gjadër, e alle quali seguiranno oggi proteste davanti ai palazzi istituzionali di Tirana, c’è anche Detjon Begaj, consigliere comunale di Bologna, originario di Valona, in Albania: “Altro che patto di ‘amicizia e riconoscenza’, come è stato definito – spiega – quello tra Meloni e Rama è un atto di neo-colonialismo nei confronti di questo paese. Sta fallendo ma è fondamentale fallisca definitivamente, per scongiurare che altri paesi europei possano prenderlo a modello per l’esternalizzazione delle frontiere europee e la violazione del diritto di movimento e di asilo delle persone”. “Come possiamo essere complici di queste violazioni della dignità umana – spiegano i manifestanti albanesi di Zane Kolektiv e Europe Other – di persone che, come tanti di noi, stanno solo cercando un luogo sicuro dove vivere e lavorare?”.
Per gli attivisti i costi altissimi dell’operazione, la selezione arbitraria dei migranti in mare e le condizioni di detenzione denunciate dagli operatori sanitari “contribuiscono a configurare un quadro di sistematiche violazioni dei diritti fondamentali e determinano il fallimento di questi accordi”, ma la mobilitazione internazionale contro il protocollo andrà avanti “perché quello che contestiamo non è solo l’applicazione, ma anche la possibile riproposizione di ulteriori accordi per l’esternalizzazione delle frontiere esterne dell’Ue da parte di altri paesi membri”.

L'articolo “Abbiamo ceduto il nostro territorio per accordi criminali, noi migranti come loro”: anche cittadini albanesi alla protesta contro il cpr di Gjadër proviene da Il Fatto Quotidiano.