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Ноябрь
2024

Samaria, esperto in intelligenza artificiale: «Un’opportunità, ma i rischi ci sono»

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Si occupa di intelligenza artificiale, moneta digitale, alta finanza, mondo bancario. La prestigiosa carriera di Ferdinando Samaria è partita da Belluno quasi quarant’anni fa, arrivando in Inghilterra dove si è laureato e specializzato all’Università di Cambridge, lavorando lungamente anche nel settore bancario. Ora è docente a Cambridge nel corso di Finanza Decentralizzata e Moneta digitale. Sabato prossimo sarà a Seren del Grappa, al teatro di Rasai per ricevere il premio ai “Bellunesi che onorano la provincia in Italia e nel mondo”.

Lei ha scelto di frequentare l’Università all’estero, in Inghilterra. Perché? Erano molto più all’avanguardia che in Italia nel settore di suo interesse?

«La signora Satta, la mia professoressa di matematica al Liceo Tiziano, mi suggerì di partecipare al concorso per il Collegio del Mondo Unito a Duino (Trieste), dove completai gli ultimi due anni di liceo conseguendo il Baccalaureato Internazionale (un diploma di scuola superiore riconosciuto ovunque). L’ateneo di Cambridge, straordinario per bellezza e livello accademico, mi offriva la possibilità di prendere la laurea e il dottorato di ricerca in ingegneria in 6 anni (invece degli 8 che servivano in Italia). Inoltre, il mio collegio, Trinity, metteva a disposizione professori personali che mi seguivano ogni settimana per preparare gli esami. Cambridge rappresentava un’esperienza molto ampia, con impianti sportivi di eccellenza (per diversi anni ho remato in uno degli otto-con del mio collegio, oltre che partecipare ai campionati di calcio e tennis dell’università) e un panorama di opportunità di networking ed eventi sociali entusiasmante. Si tratta comunque di una struttura apicale, come ce ne sono forse una o due in Italia; quindi, il confronto generale con le università italiane non sarebbe giusto. Le università italiane sono ottime e non mi farei guidare dalle classifiche internazionali, stilate con parametri calibrati al mondo anglosassone, che non ne colgono il reale valore che resta molto elevato. Se non fossi entrato a Cambridge, avrei fatto domanda per Pisa e il Politecnico di Milano».

Si occupava già allora, negli anni 90, di intelligenza artificiale di cui la gente comincia solo adesso a capire la sua importanza. È ormai presente nella nostra vita, senza che noi ne siamo consapevoli. Tante le prospettive positive. Ce ne può dire qualcuna? E i rischi?

«All’inizio degli anni 90 eravamo in pochi a studiare l’Intelligenza Artificiale. Dopo la laurea ebbi la fortuna di collaborare con l’Olivetti Research Laboratory sotto la guida di Andy Hopper, che sponsorizzò con una borsa di studio il mio dottorato. Erano tempi pioneristici e giravamo per il laboratorio con sensori addosso e apparecchiature portatili (a tutti gli effetti i predecessori dei telefonini) chiamandoci via video da un edificio dell’università all’altro. L’IA, che, come disciplina, nasce negli anni 50 ma non riusciva a decollare, beneficiò molto della crescita e disponibilità di calcolatori sempre più potenti. Oggi è dappertutto e sicuramente migliorerà la qualità di tanti servizi, facilitando anche la ricerca in campo scientifico. I rischi però ci sono. Il primo è che la maggior parte di questi modelli è talmente complicata che nemmeno i programmatori riescono a spiegarne i risultati (immaginiamo il caso in cui la macchina commettesse un errore ad esempio in medicina, in campo militare o in finanza). Per alcuni algoritmi, poi, il consumo energetico è molto elevato e destinato a crescere. La regolamentazione dell’IA sarà un tema fondamentale per la società, ma a mio giudizio non è chiaro che stiamo andando nella direzione giusta, perché sento troppi riferimenti all’idea di “auto-regolamentazione” (consentire cioè ai colossi informatici di darsi regole autonomamente). Si sta creando un pericoloso divario tra le conoscenze di chi opera nel settore privato e in quello pubblico, peraltro con un conseguente squilibrio remunerativo. Se tutti i più capaci staranno da un lato, chi li controllerà?».

Ha lavorato per molti anni nel settore bancario, arrivando ai vertici di Unicredit. Ora è docente a Cambridge, ha preferito la docenza al mondo dei numeri e delle strategie economiche?

«Il corso che abbiamo preparato a Cambridge per gli studenti di master del dipartimento di informatica si occupa di finanza decentralizzata e monete digitali. Unisce temi economici a matematica e scienza dell’informazione. In questo senso la mia esperienza nel settore bancario è estremamente rilevante. Nel mondo del lavoro è difficile trovare profili che riescano a combinare conoscenze scientifiche con esperienze pratiche nel campo economico e con il corso vorremmo trasmettere agli studenti lo stimolo a essere duttili ed ampliare l’apprendimento nel dettaglio a più discipline».

Quale è il suo rapporto con Belluno? Mantiene i contatti? Ci torna?

«Ho la fortuna di poter tornare a Belluno 4 o 5 volte all’anno. Vengo a trovare la mia famiglia (mia madre, mio fratello Ugo ed uno zio che abitano in città) e i tanti conoscenti, come l’amico fraterno Riccardo Zaccone, il presidente del Rotary Club di Belluno, che ha generosamente proposto la mia candidatura al premio. Ovviamente d’inverno ne approfitto per andare a sciare sulle Dolomiti».

Un migliaio di persone ogni anno lascia la provincia, molti giovani che cercano lavoro altrove. Quali sono i nostri principali difetti che fanno scappare le persone? Poca meritocrazia? Stipendi risibili? Poca possibilità di progredire?

«Belluno è penalizzata principalmente da due fattori: il primo è logistico, perché ancora oggi è molto scomodo raggiungerla (in particolare con i mezzi pubblici). Il secondo è l’assenza di un’università, che ovviamente limita la possibilità di creare l’indotto virtuoso che i campus accademici attirano. Ci sono settori, però, in cui la città può provare a essere leader, come ad esempio quello turistico di alta fascia, affiancando alle bellezze naturali un’offerta culturale di tradizioni ed eccellenza di prodotto che si spera forse un giorno potrà aiutare a invertire questi flussi».

A un giovane che volesse seguire la sua strada, cioè studiare all’estero non solo andarci dopo la laurea ha qualche consiglio da dare?

«Acquisire esperienze è importante e studiare all’estero, particolarmente per il corso di laurea, è chiaramente un’opportunità che arricchisce anche dal punto di vista dell’apprendimento di una lingua straniera. Uno dei notevoli vantaggi dell’Unione Europea è la possibilità di risiedere e studiare in un qualsiasi paese membro con pochissimi ostacoli burocratici. È un luogo comune, ma ovviamente consiglio ai giovani di appassionarsi allo studio, peraltro avvalendosi anche di tutti i nuovi strumenti disponibili».