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Con le aggressioni ai medici c’entrano anche i vertici della sanità

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di Fiore Isabella

La reazione della politica e delle istituzioni alla brutale violenza di cui è stato vittima il dottor Rosarino Procopio, primario facente funzione del pronto soccorso dell’ospedale di Lamezia Terme, è stata unanime. E non poteva non essere così! La violenza come metodo per avere risposte ai propri bisogni (negli ospedali, nelle scuole, nei luoghi di lavoro, negli stadi e per le strade) non è un mezzo per affermare la convivenza civile ma solo per ferirla mortalmente.

Certo i potenti della terra che si dilettano, con macabra perseveranza, a considerare atti necessari le guerre di aggressione e le stragi per vendetta (vedi i 40mila e passa morti di Gazza) non possono elevarsi a censori del giovane lametino che, ignaro del valore ecologico della comunicazione attraverso la parola, piomba in un pronto soccorso col manganello in mano. La reazione dei mass media, in totale armonia con le istituzioni regionali e locali, è stata univoca “…penetrando esclusivamente ogni giorno in una sola direzione, quella del potere verso la gente comune”, come afferma H. Laborit nell’opera La colombe assassinée.

Anche in questo caso di Lamezia Terme, anzi soprattutto in questo caso, si rischia di rinchiudere dentro confini temporali la valenza emotiva di ciò che è accaduto; confini che coincidono con gli automatismi culturali che non sono altro che prigioni, senza barriere ma estremamente raffinate, da cui è difficile evadere perché non si ha la consapevolezza di essere prigionieri.

Questa prigione, fisica e non solo culturale, in cui matura la violenza è la cornice di desolazione e di impotenza che non chiama in causa i pochissimi medici e infermieri del pronto soccorso, peraltro bravi, ma i vertici della sanità calabrese che hanno ridotto i pronto soccorso a copie sbiadite delle infermerie presidiarie, tragicamente presenti nei teatri di guerra.

Due o tre medici, e altrettante unità di infermieri che coprono il loro turno di lavoro al cospetto di pazienti gravi e di tanti altri che, al di là della serietà delle patologie, aspettano, spesso psicologicamente provati, di conoscere i motivi dei loro malesseri.

Sì, proprio la conoscenza che, in questa sanità pubblica calabrese comatosa, fatica ad imporsi come unica luce nella notte in cui la paura dell’ignoto rompe il rapporto con l’ecologia della comunicazione.

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