Lezioni di Storia, al Giovanni da Udine un viaggio nello splendore della Palermo araba
Secondo appuntamento in programma per domenica 10 novembre al Teatro nuovo Giovanni da Udine, alle 11, per il ciclo di Lezioni di Storia organizzato in collaborazione tra Editori Laterza e la Fondazione del Teatro udinese con il sostegno di Confindustria Udine e la Media partnership del Messaggero Veneto. A parlare di “Palermo e la stagione d’oro della cultura araba” sarà Amedeo Feniello, docente di Storia medievale al Dipartimento di Scienze Umane dell’Università dell’Aquila.
Professore, quale sarà l’arco temporale della sua esposizione?
«Traccerò lo sviluppo di Palermo dal momento dell’occupazione musulmana fino agli inizi del Duecento, dunque fra il IX e il XIII secolo: circa 400 anni di presenza musulmana violentemente interrottasi con i Normanni e, ancor peggio, con Federico II».
Ma cos’era Palermo all’arrivo dei musulmani?
«Era una piccola roccaforte bizantina senza importanza rispetto alle città della costa orientale, ma con i musulmani raggiunse vette demografiche del tutto senza paragoni con le città europee, ancora balbettanti».
E che cosa giunse a rappresentare la Palermo araba?
«Per capirlo, occorre ribaltare la nostra prospettiva geografica, perché in quell’epoca il Sud era al Nord e viceversa: la zona che noi consideriamo il Sud del mondo era, infatti, molto più avanzata rispetto a un’Europa sottosviluppata, e Palermo a quel tempo divenne a sua volta la punta più avanzata di un universo musulmano che copriva lo spazio dal Mediterraneo fino all’Afghanistan attuale».
Ci parlerà, insomma, di un cosmo pressoché sconosciuto ai più.
«Esattamente. Parlerò di un sistema che era basato su vere e proprie megalopoli, da Bagdad alle grandi città del centro dell’Asia, che oggi sono quasi completamente scomparse: una costellazione urbana gigantesca che poteva contare su notevoli infrastrutture e collegamenti tenuti dalle vie della seta e dai grandi assi di commercio navale della “via dei monsoni” (dall’India al Mar Rosso e all’Egitto). Altre grandi città erano il Cairo e la Cordova della stagione califfale musulmana. Era un mondo che schiacciava, conteneva e controllava il Mediterraneo, con un unico grande antagonista, ovvero l’impero bizantino».
Un mondo integrato di grandi relazioni commerciali, dunque?
«Proprio così, e il perno erano i mercanti musulmani ed ebrei. Palermo non era parte del contesto cristiano occidentale: era invece collegata con l’Egitto Fatimide, con il Nord Africa, ed era uno scenario che registrava un continuo andirivieni di gente e di merci di lusso che la rendevano una grande capitale del Mediterraneo».
Poi però, nella seconda metà dell’XI secolo, arrivarono i Normanni…
«Arrivarono, chiamati da sovrani di città musulmane siciliane, nel contesto di una guerra civile. In seguito, con la loro netta superiorità militare operarono una conquista e un’espropriazione che aprirono la strada a una serie di ondate migratorie sia dalla Normandia sia, soprattutto, dall’Italia settentrionale (in sintesi l’inverso di ciò che è avvenuto in Italia il secolo scorso, nel secondo dopoguerra). In uno scontro sempre più di natura religiosa, e sempre più spietato, dopo Ruggero II, infatti, si ebbero violentissimi pogrom, come ad esempio quello di Palermo, che racconterò. Fu quella la prima fase di una pulizia etnica».
Ha detto proprio “pulizia etnica”?
«Sì, e la seconda fase, con Federico II, fu ancora più dura, registrò infatti stermini su larga scala, oltre a repressioni e deportazioni: in netta antitesi con un mondo precedente che non deve essere idealizzato, certo, ma che conosceva anche princìpi e pratiche di integrazione e di convivenza».
Un Federico II non proprio in linea con l’idea edulcorata alla quale siamo abituati?
«Proprio così, e chiarirò bene questo aspetto».
Ma che cosa rimane oggi a Palermo della lunga dominazione musulmana?
«Ben poco. Rimane tanto nella toponomastica e nel linguaggio, ma quell’universo musulmano fu fatto scomparire mentre prendeva il suo posto un’altra Sicilia, nel quadro di un sistema feudale e con attori completamente diversi: genovesi, pisani, catalani…».
C’è stata una sorta di damnatio memoriae anche dal punto di vista storiografico?
«Sì, per lungo tempo è stata fatta tabula rasa. Poi nel corso del ‘900 questa storia è stata raccontata più da storici stranieri che nostrani, i quali si sono limitati alla Sicilia normanna, sveva, angioina, ai regni aragonesi, obliterando la storia precedente».
Oggi i tempi sono maturi per rimediare?
«Oggi sì, come testimonia il fatto che qualche anno fa Laterza ha pubblicato molto volentieri un mio libro sulla storia dell’Italia musulmana. È stato il primo lavoro organico sull’argomento, cui è seguito quello di Alessandro Vanoli sulla Sicilia musulmana».
Anche l’incontro in programma, allora, è un’occasione per continuare su questa linea.