Raid notturno al centro massaggi di Monfalcone. Dissequestrato il locale, non i soldi
I sigilli non avviluppano più la vetrina del centro massaggi di via Cosulich a Monfalcone, teatro sei settimane fa di un’irruzione che aveva portato due delle tre donne di nazionalità cinese presenti in quel frangente a richiedere le cure sanitarie al San Polo. Una per un profondo squarcio alla testa, poi suturato. L’altra per i colpi ricevuti, pugni o calci. Illesa invece la terza. L’avvocato che le assiste, Piergiorgio Bertoli del Foro di Udine, e che rappresenta anche un’altra loro connazionale «estranea ai fatti e alla gestione dell’attività, ma proprietaria delle mura», ha presentato infatti due istanze di dissequestro: quella accolta la scorsa settimana, relativa appunto all’immobile, e una seconda ancora in stand-by concernente invece la somma di denaro, 5.750 euro, ritrovato al piano interrato attrezzato a cucina del centro “Thai Massage”, in via Cosulich. «Contante frutto di risparmi», precisa il legale.
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La movimentata notte tra il 26 e il 27 settembre aveva portato di lì a poco gli agenti del Commissariato di Polizia, cui la Procura di Gorizia ha affidato le indagini, sulle tracce di un 24enne di origini rumene residente in città, P.A.S. le sue iniziali, poi sottoposto a fermo a fronte di indizi ritenuti gravi nell’immediatezza dei fatti. In qualità di rappresentante delle parti offese, l’avvocato Bertoli è stato informato della «richiesta di revoca della misura cautelare formalizzata dalla difesa dell’indagato», cioè l’avvocata triestina Caterina Turra.
Ma la giudice per le indagini preliminari Fabrizia De Vincenzi ha rigettato l’istanza. Resta sempre possibile, in astratto, la via del Tribunale del riesame, ma queste sono valutazioni che semmai farà l’avvocata col suo cliente, attualmente ristretto al carcere di Belluno, in attesa di un’«udienza in calendario il 12 dicembre», stando a quanto appreso sempre dall’altro legale, Bertoli.
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Come emerso pochi giorni dopo l’episodio, le due cinesi aggredite avevano provveduto a presentare denuncia. Il locale di via Cosulich, situato prima dell’intersezione con via Ponziana, era stato subito posto sotto sequestro e le indagini si erano avviate sotto il più stretto riserbo istruttorio. Tuttavia, pur nel perdurante silenzio e a fronte della cautela inquirente, erano emersi alcuni elementi utili a inquadrare per sommi capi la vicenda, rispetto ai possibili motivi che potevano aver portato alla violenta incursione all’interno dell’attività.
Era stata infatti sfondata la vetrata laterale del Centro massaggi, abbattuta la porta di accesso all’area relax vera e propria. Il presunto aggressore si era allora trovato davanti, sempre secondo le ricostruzioni, le due cinesi atterrite. Con loro pure una terza connazionale, dipendente dell’attività di massaggi che, a dispetto del panico, era riuscita non solo a chiamare il 112, ma aveva anche avuto la prontezza di scattare col suo cellulare una foto. Attimi in ogni caso concitati, da cui era scaturita una colluttazione, tant’è che pure P.A.S. aveva ricevuto violenti colpi alla schiena, refertati. E si era poi dovuto rivolgere al Pronto soccorso per le necessarie cure. La foto, ma anche il fatto che nel percorso di fuga l’uomo al centro delle accuse mosse dagli inquirenti aveva seminato oggetti a lui riconducibili, si era quindi dimostrata utile ai fini dell’individuazione da parte della Polizia di Stato.
E poi la questione dei soldi, una discreta somma, rivenuta dopo le accurate perlustrazioni degli agenti al piano interrato del centro massaggi, attrezzato a cucina. Contanti finiti, come l’immobile, sotto sequestro, a fini probatori. Le donne aggredite, si era detto un mese fa, non risulterebbero dipendenti del centro. Pare fossero arrivate a Monfalcone per consegnare del materiale alla connazionale. Aspetti da scandagliare. La presenza del denaro contante spiegherebbe - o almeno ne costituirebbe un possibile movente - l’irruzione nell’attività di via Cosulich, a suggerire lo scopo di rapina. Nell’ipotesi tentata, ma non consumata. Si precisa in ogni caso che vige la presunzione di innocenza della persona indagata fino all’eventuale sentenza definitiva di condanna. —
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