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Da vigile a Trieste a sindaco di Forni Avoltri, l’ispettore Sluga è andato in pensione

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L’ispettore capo Fulvio Sluga ha appeso la divisa nell’armadio. Ha appena compiuto 67 anni e da qualche giorno è andato in pensione dopo quasi un trentennio di carriera nella Polizia locale. Ha fatto in tempo a partecipare ai festeggiamenti per il ritorno di Trieste all’Italia.

Se la fiamma professionale si è spenta per ragioni di età, l’altra, quella politica, arde ancora. Non come i primi tempi, quelli virulenti degli anni Settanta, delle barricate in Viale contro Lotta continua.

Perché ora Sluga fa il sindaco di Forni Avoltri continuando peraltro a coltivare l’altra sua passione, insieme a quella per la cosa pubblica: l’attaccamento alla montagna, agli Alpini e alla Protezione civile.

Classe 1957, il suo curriculum è nutrito di incarichi nella destra missina: eccolo appena quindicenne – era il 1972 – nella sede del Fronte della gioventù in via Paduina. Poi nel Msi come consigliere comunale dal 1988 al 1992, quindi in quota An (nel 1997) per la presidenza della Settima circoscrizione e il salto in Provincia nella giunta Codarin da vice presidente dal 1998 al 2001.

E infine, ancora, assessore comunale con delega alla Polizia municipale fino al 2006 nel primo mandato di Dipiazza.

Quasi trent’anni di professione intervallati da incarichi politici.

Tranne brevi periodi, non mi sono mai messo in aspettativa. Ho sempre lavorato.

L’episodio più particolare che ricorda di tutti questi anni?

Ci sono esperienze che ti segnano. Ad esempio ho ancora in mente un incidente mortale in cui ero intervenuto in supporto: la vittima era il figlio di un mio caro amico. Ero andato io ad avvisare il padre. Poi l’ho accompagnato a dare la comunicazione alla madre, perché erano separati. Andare a dire a un genitore che il figlio non tornerà più a casa è sempre qualcosa che ti lacera.

Negli anni Trieste è cambiata in termini di sicurezza?

Radicalmente. Una volta c’era chi rubava il motorino, c’era un accoltellamento ogni tanto e c’era una criminalità italiana in trasferta qui. Ma Trieste era comunque tranquilla. Ora no. Ci sono anche due risse al giorno tra stranieri dove il coltello spunta di regola. Spesso sono risse per il controllo del territorio per spacciare. Poi i protagonisti vengono anche arrestati, ma spesso non passano nemmeno per il Coroneo e tornano a fare quello che hanno fatto.

La militanza politica ha ostacolato o favorito il suo percorso professionale?

Quando ero stato assunto c’era chi, in Comune, cercava cavilli per lasciarmi fuori visti i miei trascorsi burrascosi dell’età giovanile. Manovre postume di rivalsa, ma sono finite in niente.

Lei in passato era stato preso di mira con un lancio di molotov.

Erano gli anni Settanta. Le avevano lanciate contro casa mia in piazzale Rosmini e contro l’auto. Faceva parte del clima di contrasto.

Colpa di quella sua fama di picchiatore.

(ride) Mica è scritto nel curriculum. Ma non lo nego... ero uno tosto, non mi tiravo indietro.

Altre cose che non nega?

Meglio non dirle (ride ancora) perché non sono ancora in prescrizione. Ma nella vita te ciapi e te dà.

Che anni erano?

Di passione sincera. Uscivamo dal Sessantotto: la spinta alla militanza era trasversale: in classe mia al Nautico metà era di estrema destra, che poi era destra, l’altra metà di Lotta continua. Ma in classe prevaleva l’amicizia, amicizie che durano ancora oggi. C’era voglia di rinnovamento, che quella volta era rivoluzionario. La comunità in cui vivevamo doveva cambiare, così nasceva l’impegno.

Gli anni di via Paduina, le barricate.

Ne so qualcosa. Sono stato segretario provinciale del Fronte della gioventù dopo Grilz e prima di Menia. Portavamo avanti i temi della giustizia sociale, della difesa dei valori etici. La legge sul Giorno del ricordo nasce da principi su cui ci battevamo.

Se dipendesse da Sluga, i cartelli bilingui andrebbero tolti o devono restare?

Non mi rendono felice, ma oggi non sono un aspetto determinante. Comunque al di fuori del contesto cittadino diventa una battaglia di retroguardia. Il tema è piuttosto lo sviluppo di un progetto culturale per le comunità italiane nelle terre abbandonate dopo il ’45. —

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