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Ноябрь
2024

Alessia Trost si ritira a 31 anni: «Adesso salto nella vita»

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Chiudere una parte della propria vita non è mai facile. Si sa cosa si lascia, meno quello che si trova. A 31 anni Alessia Trost ha voluto però guardare avanti. La saltatrice in alto pordenonese, infatti, ha scelto di ritirarsi.

Una decisione presa alla luce dell’infortunio al tendine d’Achille, accusato lo scorso gennaio e che l’ha tolta di scena per tutta la stagione. Così, su una delle più grandi azzurre di sempre, volata a 2 metri a neppure vent’anni, è calato il sipario, tra i rimpianti su una carriera che avrebbe potuto essere straordinaria e che, per molti motivi, non l’è stata. Alessia non ha tuttavia lasciato la pedana. Vi è rimasta, indossando un’altra veste: quella di tecnico. Sta già allenando le giovani promesse del salto in alto delle Fiamme Gialle, attività in cui «rispetterò e valorizzerò il modo di saltare che ogni ragazzo ha», dice.

Trost, impossibile ricominciare dopo l’infortunio?

«Già durante il meeting di Nantes, subito dopo l’incidente, avevo detto a una mia avversaria che quella sarebbe stata la mia ultima gara. Mi ero resa conta che sarebbe potuta andare così. Nei mesi successivi ho tenuto il giudizio in sospeso. Ho ripreso ad allenarmi, ma ho capito che non avrei avuto la forza mentale per sostenere un nuovo percorso».

Ha voglia di ricordare gli inizi? A portarla al campo Mario Agosti, nei primi anni 2000, fu suo papà Rudi, il suo primo allenatore.

«Ero una ragazzina scatenata, che aveva bisogno di incanalare le proprie energia facendo sport. Sono cresciuta in pista, gli anni delle categoria giovanili sono stati stupendi, una tappa di crescita e sviluppo. Poi il mio rapporto con l’atletica si è trasformato: è diventato più ragionato e si è svolto su un palcoscenico mondiale, calcato da professionista in maniera stabile sino a pochi mesi fa».

Quali i momenti più belli? Le vittorie mondiali giovanili?

«Come successi scelgo il titolo iridato U20 di Barcellona del 2012, tra le esperienze più significative la prima partecipazione ai campionati mondiali assoluti del 2013 a Mosca e la prima volta ai Giochi Olimpici del 2016 a Rio. In entrambe le occasioni percepivo che stavo vivendo ciò che avevo sognato».

Il 2013 è stato l’anno dei 2 metri, stabiliti a Trinec in Repubblica Ceca in una gara. È stato sotto ogni punto di vista il momento di svolta della carriera?

«Sì. Sino ad allora la mia visibilità era legata alle categorie giovanili, era tutto sostenibile. Dopo ho vissuto tutto tra gioia, responsabilità e peso. Prima il salto era una cosa “mia”, poi è diventata di tutti. Le persone che parlavano con me, non parlavano più con Alessia, ma con l’atleta. Ho fatto fatica a sostenere la pressione e ho perso il contatto con ciò che andava fatto dal punto di vista tecnico. Pensavo alle mille altre cose da risolvere, come le richieste, la parte amministrativa… Non avevo gli strumenti per gestire tutto».

Sino a quando ha retto e cosa l’ha “salvata”?

«Ho tenuto assieme tutto con lo scotch sino al 2015, poi ho iniziato a vivere tutto negativamente. Il 2016 è stato l’anno più difficile tra la malattia di mia mamma e quella di Gianfranco Chessa, l’allenatore che mi aveva cresciuto a mi seguiva. Mi ha salvato l’enorme passione che provavo e provo per il salto in alto. È ciò mi ha permesso di fare atletica sino a oggi e che mi porto dietro tuttora: è la luce che mi tiene viva nel nuovo percorso di allenatrice. Mi piace stare al campo, amo la mia specialità: così ho scelto questa strada. I salti dei ragazzi li sogno anche di notte».

Dal 2016 in poi i risultati non sono più arrivati, tra cambi di allenatore (tra cui il passaggio da Chessa a Marco Tamberi, papà di Gianmarco) e alcuni infortuni. Rimpianti?

«Parecchi. Il principale è non aver avuto stabilità tecnica. Il mio salto è cambiato troppo e non ho avuto continuità: sono stata forte, veloce, leggera, e la tecnica si è dovuta adattare ai motori diversi che ho avuto. Il lavoro si costruisce negli anni, anche dieci, non solo nei quadrienni olimpici».

È vero che Chessa è stato il tecnico che ha capito più di tutti le potenzialità di Alessia, assecondandole?

«Anche Emanuel Margesin, il mio ultimo tecnico, ma Gianfranco, visto il mio movimento naturale, aveva capito cosa si poteva sviluppare. Aveva rispettato il mio salto e nel tempo abbiamo ottenuto risultati. La direzione intrapresa era giusta. Il mio pregio era la forza e nel tempo avrei potuto entrare più veloce allo stacco, perché avevo la potenza giusta per sostenere tutto questo».

Il modus operandi di Gianfranco Chessa è quello che sta già adottando nella sua nuova carriera da allenatrice?

«Sì, mi porto tutti i suoi insegnamenti. Sono al 100% uguale a lui, con le mie peculiarità. I ragazzi che alleno saltano tutti diversamente: uno sfrutta la forza, un altro la velocità. Noi tecnici dobbiamo rispettare quanto vediamo, esaltando le loro caratteristiche e i loro pregi. Sono questi gli aspetti su cui dopo loro faranno maggiore affidamento».

Facciamo un nuovo salto nel passato: l’argento continentale indoor di Praga nel 2015 è il risultato più prestigioso che ha ottenuto?

«La mia soddisfazione tecnica più grande, ottenuta al termine di una prova di grande spessore tecnico e dopo una gara tirata, molto partecipata da parte mia. Quell’1,97 valso il secondo posto è stato il mio salto più alto di sempre, ben sopra i 2 metri. E ha rispecchiato appieno le mie qualità grezze».

L’Alessia Trost che ha saltato in tutte le pedane del mondo ha sempre portato con sé gli anni passati al campo di atletica a Pordenone?

«Sì, le persone che frequentavo, la Libertas Porcia, l’Atletica Brugnera sono un immaginario che mi ha accompagnato sempre. Pochi giorni fa ho visto il mio curriculum, a volte penso di non essermi resa conto di quanto comunque sono riuscita a fare. Il quinto posto ai Giochi Olimpici di Rio è stato certamente importante, ma ancora di più il modo in cui ci sono arrivata: porterò questo sempre con me».

Quali rivali e persone ricorda con piacere?

«Tra le avversarie Ruth Beitia, per me una sorte di mentore, ed Elena Vallortigara. Voglio citare un tecnico come Enzo Del Forno, lo apprezzo tanto. Mi ha accompagnato in ogni nazionale giovanile. Il mio ingresso in azzurro è stato marcato dal suo stile: era solo concentrato sulla gara, mi trasmetteva calma. E menziono il mio gruppo sportivo, le Fiamme Gialle, in cui mi rispecchio al 100 per 100 per valori e principi. Il mio viaggio in pedana è stata un’esperienza umana incredibile. Voglio trasmettere tutto quanto ho provato ai “miei” ragazzi»