Regionali in Veneto: Conte e Stefani, la rosa a due di Salvini per il dopo Zaia
Forse Luca Zaia riuscirà a centrare il ventennio, spegnendo sul nascere ogni velleità di successione nella coalizione.
Più realisticamente, l’ostilità del Parlamento al terzo mandato costringerà il presidente più votato nella storia del regionalismo a cedere la mano nel 2025, innescando un’equazione politica a due incognite.
Fratelli d’Italia, largamente maggioritaria alle urne, rinuncerà a contendere la bandierina all’alleato? E in caso affermativo, chi sarà il candidato della Lega? In proposito, la rosa immaginata da Matteo Salvini include, in posizione di spicco, due cavalli di razza padana: il deputato padovano Alberto Stefani, segretario regionale del partito, di recente asceso ai vertici di via Bellerio; e Mario Conte, il popolare sindaco di Treviso che presiede l’Anci del Veneto. Non si tratta di rumors né di congetture.
A comunicarlo ai diretti interessati, è stato lo stesso vicepremier, nel corso di colloqui riservati. La circostanza minaccia di riaccendere rivalità e tensioni ma la coppia emergente, al momento almeno, sembra privilegiare il confronto al duello, tanto da avviare un fitto dialogo a distanza.
Su quali basi? Detto che il traguardo di Palazzo Balbi lusinga entrambi, l’impressione è che Stefani non lo ritenga un obiettivo irrinunciabile a breve, sia per ragioni anagrafiche (a trentun anni può concedersi il lusso di attendere gli eventi) che in proiezione romana: saldamente attestato ai piani alti del Carroccio, a capo di una commissione bicamerale, è il pupillo del presidente di Montecitorio Lorenzo Fontana, e il suo ingresso nel Governo (al primo rimpasto magari) sembra scritto.
Decisamente più territoriale la vocazione dell’ecumenico Conte, che gode il sostegno di centinaia di sindaci e si guarda bene dall’alimentare polemiche interne, battendosi invece per l’unità del centrodestra. Un’intesa, insomma, sembra possibile. Attenzione però ai conti senza l’oste.
La destra meloniana (per tacere di Forza Italia versione Flavio Tosi) non rinuncerà al Veneto senza colpo ferire. Priva com’è di rappresentanza nordista, potrebbe puntare i piedi e invocare il primato dei consensi, oppure – nell’alchimia del tavolo nazionale – esigere in cambio la Lombardia.
E Zaia? Fedele al motto latino, verba volant scripta manent, non si sbottona sulle scelte future ma snocciola il quarto libro in altrettanti anni, “Autonomia. La rivoluzione necessaria”, che fin dal titolo suggerisce un ruolo di vestale dell’attuazione della riforma federalista, l’amatissima creatura del governatore che (salvo ripensamenti) alle prossime regionali schiererà in ogni caso la sua lista nominale, accreditata in partenza di una ventina di punti percentuali.
L’impenetrabile riserbo che avvolge l’operazione, tuttavia, turba i sonni di consiglieri e assessori in un finale di legislatura discretamente agitato. A fronte del calo elettorale leghista e dei mutati rapporti di forza, molti uscenti confidano, esclusivamente, nel “salvagente zaiano” per fare ritorno al Ferro-Fini mentre altri hanno abbandonato tout court le speranze, con i conseguenti pericoli di instabilità nella maggioranza. Ancor più urticante il nodo degli assessori.
Ad oggi, il limite regolamentare dei due mandati esclude dalla conferma figure quali Elisa De Berti, Roberto Marcato, Gianpaolo Bottacin, Manuela Lanzarin, Federico Caner, Cristiano Corazzari: unici “graziati”, Francesco Calzavara e Valeria Mantovan, all’esordio nell’esecutivo. Il presidente, a suo tempo artefice del vincolo, ha dichiarato pubblicamente che ne proporrà l’abolizione all’assemblea “per non disperdere un patrimonio di esperienza e competenza amministrativa”, ma il tempo stringe e l’aula non sembra entusiasta all’idea di prorogare gli incarichi altrui.
Una spada di Damocle, lamentano i veterani, che inasprisce la quotidianità istituzionale e incrina lo spirito di squadra.