Caterina Sanvi, un’udinese nel film su Eleonora Duse: «Con lei condivido il non fermarsi davanti a nulla»
Caterina non “fa” l’attrice, è un’attrice. Una differenza sostanziale. Lo si coglie dal suo modo d’esprimersi, da quello che dice mentre parla nemmeno fosse sul proscenio e, invece, è attaccata a un cellulare in un appartamento di Bologna. A proposito: «Non sono affatto social», confessa subito la ragazza del 2002 con un certo orgoglio. «Amo la solitudine, è un modo straordinario per ascoltarsi veramente».
L’incontro con la signorina Sanvi non è casuale. Caterina è fra gli interpreti di un docufilm sulla divina Eleonora — “Duse, The Greatest” — voluto e firmato da Sonia Bergamasco, che lo scorso anno proprio al friulano Castello di Spessa, vincitrice del premio Casanova, svelò di avere in testa e nella serata di lunedì 21 ottobre la pellicola sarà in prima nazionale al Festival del cinema di Roma.
Un’avventura nel complesso universo dell’arte. Com’è stato il percorso di una millenials nella selva oscura del teatro?
«Il tarlo rodeva sin da bimba. Finito il liceo artistico a Udine mi lanciai a collezionare provini in giro per la Penisola. Finché nel 2021 entrai dal portone della scuola del Piccolo Teatro di Milano. Tre anni magnifici. Durante i quali, peraltro, oltre a studiare praticavo sulle ruvide tavole. E mi capitò di essere agli ordini del grande Mario Martone in uno scespiriano “Romeo e Giulietta”. Un ruolo piccolo, ma d’impatto emotivo».
Come vi siete incrociate lei e la Bergamasco?
«Andai a vedere un suo spettacolo al Franco Parenti e ne rimasi folgorata. E così la raggiunsi nel camerino. Il destino ci fece rincontrare al Piccolo con il gancio del mio insegnante Antonio Latella. Quando Sonia decise di lavorare al piano Duse, mi chiamò. La mia è una parte laboratoriale con altre tre colleghe. Ci trovammo ad Asolo per vivere questo set di qualche giorno sulla figura dell’attrice».
“L’artista si nasconde dove c’è più luce”, è un vecchio modo di dire dei teatranti. Lo ritiene adatto alla sua personalità?
«In un certo senso sì. D’altronde anche la stessa Divina ogni tanto si rifugiava in montagna per ritrovarsi. Ritengo sia un’esigenza comune a molti».
Lei è nata in Friuli, ma si sente friulana?
«Spiego: mio padre è africano, arrivò in Italia giovanissimo, frequentò l’università di Gorizia finito il college; la mamma, invece, è friul/molisana, il nonno è di Termoli. Mi posso definire un sangue misto».
Solitamente si evitano i complimenti nelle interviste. Sta nel vademecum. Farò un’eccezione: lei ha una voce davvero splendida.
«Oh, la ringrazio».
Diciamolo, un attore è un cittadino del mondo, poi si torna volentieri a casa.
«Concordo. Amo viaggiare e conoscere. È una sorta di necessità per rubare sensazioni e visioni fondamentali. Sento mia l’Italia intera, certo a Udine è cominciata la mia relazione sentimentale con la scena. E questo non lo potrò mai scordare».
Le va Caterina se ci concentriamo su Eleonora Duse?
«Volentieri. Prima vorrei premettere che il film io non l’ho ancora visto. Sarà una sorpresa. I miei iniziali approcci con la signora del teatro avvennero proprio sul set affrontando il mestiere e le reazioni del corpo. In realtà la studiai al Piccolo e, ricordo, mi affascinò la sua indipendenza assoluta in contrasto con la fine dell’Ottocento. Svezzò da sola un figlio, avuto giovanissima da un collega, e soprattutto fronteggiò la carriera con le armi dell’intuito e del talento. A cento anni dalla morte Eleonora è un punto di riferimento nel mondo. Fra l’altro Giorgio Strehler fece issare una sua gigantografia sul muro della scuola milanese a imperitura memoria».
C’è una qualche sintonia fra lei e la Duse?
«La voglia di creare e di non fermarsi mai davanti a nulla, questo credo ci accomuni. E la scelta forte che conservo da ragazzina di voler salire su un palcoscenico. Il cinema è sicuramente attraente, ma non potrei mai rinunciare ad avere un pubblico davanti a me».