Il Papa e la grammatica della civiltà: non si ripara un’ingiustizia con un altra ingiustizia
Era il 7 settembre 2013. Francesco era Papa da appena 6 mesi e si è trovato già a presiedere una Veglia per la pace. Undici anni fa si è chiesto: «È possibile percorrere la strada della pace? Possiamo uscire da questa spirale di dolore e di morte? Possiamo imparare di nuovo a camminare e percorrere le vie della pace?».
Esattamente 11 anni dopo si è posto nuovamente la stessa domanda indicendo una giornata di preghiera e di digiuno mentre la pace sembra un’utopia. Al dramma della martoriata Ucraina fa eco la tragedia mediorientale. E lì dove la parola «pace» è declinata solamente in termini di «vittoria», l’unica cosa certa è l’irriducibilità del conflitto. Un anno fa in Medioriente la miccia dell’odio è deflagrata in una spirale di violenza. Francesco oggi punta il dito contro quella che ha definito senza mezzi termini la «vergognosa incapacità della comunità internazionale e dei Paesi più potenti di far tacere le armi».
Francesco vede in profondità: vede chi si combatte, ma poi si concentra sullo sfondo e nota che il problema non sono solamente i belligeranti, ma chi muove le pedine di un ordine internazionale in profonda fase di mutazione. Si è detto in molti modi che ormai si attendono le elezioni americane, e che nel frattempo ciascuno si arrangia come può per fare la mossa decisiva: la pace frutto della distruzione, dunque. Ed è in questo frattempo che si nasconde l’irreparabile. Bisognerebbe ripartire dalla grammatica di base della civiltà, sapendo che non si ripara un’ingiustizia con un’altra ingiustizia. In Medioriente stanno perdendo tutti perché tutti sono ciechi davanti al dolore degli altri.
Scrive Francesco in una sua lettera accorata: «gli uomini oggi non sanno trovare la pace e noi cristiani non dobbiamo stancarci di chiederla a Dio». Per sei volte ha ripetuto «sono con voi». Lo è come un padre, mentre i suoi figli, scrive, hanno «paura ad alzare lo sguardo in alto, perché dal cielo piove fuoco».
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