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La scrittrice britanica Morris a “Un mare di racconti”: «L’assedio di Sarajevo sulle ali di una farfalla»

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Improvvisamente, un giorno, il frigo smette di ronzare, poche ore dopo dal rubinetto non esce più nemmeno una goccia d’acqua. Fuori saettano gli spari dei cecchini e per non morire di fame si dà la caccia ai piccioni sui davanzali: è la vita com’era durante l’assedio di Sarajevo, tra il 1992 e il 1993, ed è quello che accade alla pittrice Zora nel romanzo “Le farfalle di Sarajevo”, (Neri Pozza), il vivido, coinvolgente libro d’esordio della scrittrice britannica Priscilla Morris.

Sabato sera, alle 19, l’autrice dialogherà col pubblico al festival “Barcolana Un mare di racconti”: prima di lei, al Magazzino delle idee di Trieste, arriveranno alle 16.30 Sonia Aggio con il libro “Nella stanza dell’imperatore” (Fazi), alle ore 17.20 Tullio Avoledo con “I cani della pioggia” (Marsilio) e Francesco Ferracin con “Feroce” (Linea Edizioni), e alle 18.10 Antonio Franchini che, nel bellissimo “Il fuoco che ti porti dentro” (Marsilio) finalista al Premio Campiello 2024, racconta senza false reticenze una madre ingombrante e indimenticabile.

Anche “Le farfalle di Sarajevo”, che nel romanzo sono i frammenti di carta bruciata che volteggiano lugubri su tetti e strade dopo il rogo della Viječnica, la biblioteca nazionale, scaturisce da un legame dell’autrice con la madre, originaria di Sarajevo. «Nel libro unisco due storie di famiglia - spiega Morris -. L’ispirazione più grande è stata la storia del mio prozio, un pittore di paesaggi che aveva lo studio proprio sopra la Viječnica, e perse tutto, esattamente come Zora. Lui e sua moglie sono scappati con il convoglio della Croce Rossa che Zora non riesce a prendere. In Gran Bretagna poi ha ricominciato a dipingere, dimostrando come l’arte possa essere un grande aiuto per superare la tragedia della guerra. La seconda storia è quella di mio padre, inglese, che nel gennaio 1993 è andato a salvare i miei nonni materni rimasti a Sarajevo».

All’epoca dell’assedio Morris aveva 19 anni: «Con questo romanzo ho cercato una chiave per comprendere». Ma la posta emotiva era alta e le sono serviti più di dieci anni per metabolizzare le testimonianze raccolte in un lungo soggiorno a Sarajevo, nel 2010. «Iniziare a scrivere è stato difficile. La mia famiglia era direttamente coinvolta e ancora oggi la guerra è un argomento delicato, è avvenuta solo 30 anni fa: la gente ancora discute su quello che è successo, le emozioni sono molto accese».

Zora è serbo-bosniaca, come chi sparava dalle colline sulla città: quando inizia l’assedio rimane incredula, pensa che a Sarajevo la situazione non possa precipitare perché “qui a nessuno importa il nazionalismo, chiunque ha una famiglia mista, serba, croata, musulmana”. «Anche la famiglia di mia madre è prevalentemente serbo-bosniaca», dice Morris. «Per me era importante mostrare che anche i serbo-bosniaci sono rimasti intrappolati nella Sarajevo bombardata e non tutti erano dalla parte dei nazionalisti. Anzi, moltissimi volevano continuare a vivere fianco a fianco con le diverse nazionalità come avevano fatto per secoli».

Mentre Zora e i suoi vicini di casa si stringono in un nuovo senso di comunità per sopravvivere, spartendo cibo e il calore di una stufa, la politica pare lontanissima: «Volevo mostrare la prospettiva di una persona qualunque con la vita quotidiana sconvolta dalla guerra, e cosa significa vivere in una città quando elettricità e acqua vengono tagliati. È quello che mi ha raccontato chi ha vissuto l’assedio». Ora la aspetta un secondo romanzo: «È presto per parlarne ma sarà ambientato sui due versanti, francese e spagnolo, dei Pirenei». —

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