Tutto sui biopic di Robbie Williams, Michael Jackson e Bob Dylan
Me and My Monkey cantava Robbie Williams nel 2003. “Me” era lui, la popstar più adorata del nuovo millennio, “Monkey” era il mostro delle sue dipendenze: alcol, cocaina, farmaci. Non sapeva allora, l’ex golden boy dei Take That, che un giorno la scimmia sarebbe diventata la protagonista assoluta del suo biopic. E non in senso metaforico. La premiere al Telluride Film Festival in Colorado di Better Man (nella sale a dicembre) ha svelato il colpo di scena: Robbie nel film sulla sua vita è impersonato da una scimmia, ovvero l’attore Jonno Davies trasformato in scimpanzé grazie alla tecnologia CGI (computer generated imagery). Una magia degna del Pianeta delle scimmie, una scelta estrema e spiazzante del regista, Michael Gracey, che nel 2017 ha sbancato il box office con The greatest showman. Incasso: 435 milioni di dollari. Protagonista del best seller di Gracey era Hugh Jackman nei panni di Phineas Taylor Barnum, genio visionario che dal nulla ha inventato il più grande spettacolo del mondo.
Dal circo di Barnum a quello del pop il passo è stato breve: Gracey e Williams si sono incontrati, hanno parlato per giorni e registrato una ventina d’ore delle loro conversazioni, diventate la sceneggiatura del film, la storia di un uomo che nella prima parte della sua vita ha avuto tutto quello che il successo stratosferico regala in abbondanza, tranne la felicità. In quei dialoghi c’è un espressione di Robbie che ricorre spesso: «Sono sempre stato, fin da bambino, una scimmia da palcoscenico». Ma dietro la scelta della scimmia c’è forse altro, qualcosa che ha svelato di recente il documentario di Netflix sulla sua ascesa. In alcune sequenze Williams quasi non ce la fa a riguardare le immagini del suo passato, strafatto subito dopo essere uscito dai Take That o distrutto nei camerini mentre assume ricostituenti di ogni genere prima di affrontare ottantamila fan in uno stadio. E allora, meglio rivedersi nei panni di una scimmia, rinunciando ad un attore che assume le sue sembianze, trasformandosi in una voce fuori campo che accompagna le imprese dello scimpanzé.
Sono un business formidabile i biopic dedicati alle icone della musica, un mix quasi sempre riuscito tra la celebrazione di una carriera e un sguardo alla dark side dell’artista. Che sia Elvis Presley, Freddie Mercury, Amy Winehouse o Elton John. Il filo rosso che collega tutte queste storie è il prezzo da pagare, il conto che la fama presenta sempre e in ogni caso. È questo il punto debole che rischia di rendere troppo stereotipati, fatta eccezione per i dettagli, i film di questo genere. La sfida per registi e sceneggiatori è tutt’altro che semplice, soprattutto quando si tratta di entrare nella narrazione della vita di personaggi giganteschi, di cui non si può proprio dire tutto, ma nemmeno omettere quel che tutti sanno.
Michael, in uscita ad aprile del prossimo anno, dedicato al re del pop, è una grande incognita in questo senso. Come si racconta nell’arco di un film un’esistenza complicata come quella di Michael Jackson? Un genio assoluto della musica attraversato da mille tormenti, un bambino prodigio che ha vissuto l’infanzia sul palco insieme a fratelli (i Jackson 5).. E poi, i gossip su ogni singolo aspetto della sua vita privata e sentimentale, le accuse di abusi sessuali su minori da cui è stato assolto dopo anni di processi ad altissimo impatto mediatico, la morte misteriosa causata da una dose anomala di un potentissimo anestetico. Di certo per ora c’è che nel ruolo del Re del Pop ci sarà uno di famiglia, Jaafar Jackson, figlio di Jermaine, uno dei fratelli di Michael, chiamato ad un’impresa al limite dell’impossibile: danzare come lo zio, circondato da ballerini-zombie per ricreare sul set del film il leggendario videoclip di Thriller. Dopo due anni di ricerche frenetiche per trovare l’attore adatto al ruolo, il produttore di Michael, Graham King ha optato per Jaafar, che in effetti nel trailer del biopic sembra cavarsela egregiamente. Vedremo…
Crolli, rehab e trionfi sono gli ingredienti della storia umana e artistica di Britney Spears, passata dal Mickey Mouse Club, programma televisivo per ragazzi creato da Disney, al primo posto nelle classifiche mondiali con la sexy hit, Baby one more time, a soli 18 anni. Da lì in poi, fama e drammi, matrimoni falliti, dipendenze, esaurimenti nervosi e un lunghissimo periodo, tredici anni di conservatorship, in cui il padre era l’unico a poter disporre delle sue finanze oltre a controllare le visite ai figli, la carriera e addirittura la dieta quotidiana. Tutto questo e molto altro è contenuto nella pagine del libro best seller The Woman in me (Longanesi) in procinto di diventare film. Al momento pare che siano in corso le audizioni per l’attrice protagonista che dovrà impersonare Britney.
Insomma, nel nome del biopic che funziona, tutti gli artisti, o nel caso di quelli ci sono più più, i loro eredi, sono disposti a concedere qualche intrusione nella vita privata, nelle loro storie meno edificanti. Tutti tranne uno, Bob Dylan che da decenni vive al riparo dal gossip, erigendo una cortina di ferro tra sé e il mondo esterno. Un grado di sparizione totale tra l’artista, che continua incessantemente a suonare dal vivo, e l’uomo che si fa i fatti suoi nel senso più categorico del termine. Il biopic di prossima uscita (gennaio 2025) A Complete Unknown nemmeno si avvicina a quel che ha fatto negli ultimi cinquant’anni. La storia inizia nel 1961, quando Bob arriva a New York dal Minnesota con due dollari in tasca e in tre anni diventa il cantautore di riferimento di una generazione, e si chiude nel 1965 con la leggendaria esibizione al Newport Folk Festival. Pare che l’unico contributo di Dylan al film sia stato un vecchio nastro zeppo di canzoni e provini dei suoi inizi per far entrare nella parte l’attore che interpreta sul grande schermo lui e le sue canzoni. Un genio della privacy…