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I ricordi di Deborah Nadoolman Landis: «Quando Michael Jackson guardava la tv a casa nostra»

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Sui rulli di coda dei film il nome del costumista passa inosservato più o meno come l’uomo invisibile. Sai che pandemonio estetico verrebbe fuori se ogni attore si vestisse come gli pare. Uno in jeans, l’altro in tuta e quell’altro in smoking. Eppure è un mestiere nascosto.

Avvalora questa certezza Deborah Nadoolman Landis, una fedelissima delle “Giornate del Muto” a Pordenone, moglie di cotanto marito John, ma soprattutto una Lady assoluta del cinematografo per aver vestito, fra i tanti, Dan Aykroyd e John Belushi nel cult “The Blues Brothers”. «Eravamo giovanissimi allora e non ci rendevamo nemmeno conto di quel che stavamo imbastendo».

Nessuna percezione di avere fra le mani un qualcosa di esplosivo?

«Nemmeno per sogno. Per tornare al concetto iniziale, forse solo mia mamma sapeva, al tempo, che avevo firmato i costumi di “Indiana Jones”, pensi lei».

L’ispirazione si forma dalla conoscenza dei personaggi, da una chiacchierata col regista o dal copione?

«C’è un malinteso. La gente pensa al nostro impegno come un qualcosa di superficiale e di decorativo. Partiamo dal concetto base: il cinema è letteratura, ovvero parole scritte. Quindi esiste una base narrativa. Pensi che molti mi hanno chiesto: “Ma lei sa cucire?”. E io rispondo sempre: no, però so leggere. Fondamentale è assimilare la sceneggiatura. E soltanto dopo averla digerita incontro il regista».

Lei è legata sentimentalmente alle Giornate. Giovedì 10 ottobre, alle 18 al Verdi, affiancherà la storica Priska Morrissey per un dialogo originale sull’impiego dei costumi dalle origini francesi. Che cosa risale di fondamentale dalla preistoria?

«Il Muto ha contribuito in tutto al design della storia del cinema. Due erano le finalità: esprimere la narrazione della trama e, soprattutto, quella visiva. Tornando a oggi è doveroso pensare alle caratteristiche dell’attore non scordando mai d’immaginare in che modo sarà proiettato sullo schermo».

Voi costumisti contemporanei vi siete ispirati ai “tagli” del primo Novecento?

«Assolutamente sì. Ammiro tantissimo questi signori che ci hanno preceduto. Noi abbiamo sempre da imparare e dobbiamo avere fame: in ogni opera che vedo afferro consigli e me li intasco”».

Quando la signorina Deborah decise di dedicarsi alla professione?

«I miei hanno sempre avuto un televisore in bianco e nero. Vidi il “Mago di Oz” e pensai fosse, appunto, in b&n. Pian piano scoprii il colore e, nel contempo, la voglia di mescolare le tinte, creando sfumature nuove».

La conferenza di questo pomeriggio a chi sarà dedicata? Agli addetti ai lavori o al pubblico?

«A chiunque s’interessi di cinema. Quando io e mio marito entrammo in sala qui a Pordenone più di trent’anni fa, mi ritrovai a gestire un pensiero insistente: c’è qualcuno a cui interessano i costumi? Tutti seguono la storia e ascoltano la musica. Per noi i crediti sono zero, nemmeno un libro a ricordare chi siamo».

Ci perdoni un tocco glamour: è andata d’accordo con John Landis durante le riprese di “The Blues Brothers” e di “Animal House”? E ancora: è stato difficile gestire un tipo irrequieto come Belushi?

«Non c’era alcunché che ci portasse nemmeno a idealizzare la nostra creazione. Eravamo poco più che ragazzi con molti ideali e tanta voglia di fare e di imporci». (Silenzio su Belushi).

C’è un accadimento di allora che vorrebbe condividere?

«Io, John e la madre di Spielberg andammo alla première di “1941 Allarme a Hollywood”. Steven intuì il disastro e scappò durante la proiezione».

Lei vestì Michael Jackson nel celeberrimo “Thriller”. Ricordi e sensazioni?

«Era magrissimo e piccolo, ma geniale. Veniva spesso a casa nostra a guardare i cartoni animati. A una certa ora entravo in salotto col pigiama e dicevo: “John, Michael deve andare a casa adesso”. Conobbi Jackson nella sua fase da sconosciuto e quando lo vidi sul palcoscenico con altri ballerini attorno, mi resi conto di quanto quel ragazzo sapesse concentrare l’attenzione su di sé in mezzo a mille».

Signora Landis, ogni mattina fa attenzione a come è vestito il suo consorte?

«Non serve. Tutto ciò che lui ha in armadio l’ho comprato io».