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Tutto quello che c’è dietro il “toc’”: un piccolo gesto che racconta Trieste 

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Fare un toc’ è un gesto breve. Andare a fare un toc’ è diverso dall’andare al mare, che qui a Trieste si dice “andare al bagno”, molto diverso dall’andare in bagno.

Mauro Covacich, in “Trieste sottosopra”, dice che il mare è un lato della stanza. Per i triestini, il mare è uno degli ambienti di casa, una foto da tenere nel portafoglio. Toc’ viene da “tociar”, che significa intingere, come un biscotto nel caffellatte. Deve essere subito fra le labbra, altrimenti “se se inzumba tropo” diventa molliccio e menopiacevole.

Un toc’ deve essere rapido, corroborante, rinfrescante e, soprattutto, goduto come un lusso che solo questa città ti regala. È una toccata e fuga, una parentesi nella giornata intensa, un sollievo dal gran caldo o dai troppi pensieri.

Puristi del toc’ arrivano a Barcola o al Pedocin in dieci minuti e devono essere a destinazione, altrimenti “no xe toc’”.

C’è anche il toc’ notturno, che si aspetta il tramonto e, visto che il “bagno” si fa o soli o in due, può valere un consiglio. Con voce ispirata e occhi negli occhi del compagno o della compagna, recitare: “Trieste dormi, el mar se movi apena, le stele brila e le te fa sognar; se questa note ciapo na sirena, mi te la voio doman a regalar…”. Tanto poi si incontrerà comunque qualche amico. L’asciugamano, non quello a due piazze, va piegato longitudinalmente e poi arrotolato come una “palacinka”, in modo da contenere “zavate” e costume. Ci si cambia appena arrivati a destinazione. I toc’si fanno uno massimo due, altrimenti diventa “bagno”. Quindi, buon bagno, o buon toc’.