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Fedez e i cattivi maestri della trap

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«Lasciatemi stare che l’ammazzo. Io sono di Rozzano!».

Sono queste, secondo i racconti dei buttafuori della discoteca milanese “The Club” – testimoni oculari della rissa –, le parole che Fedez urlava contro Cristiano Iovino.

La famigerata notte fra il 21 e il 22 aprile scorsi, su cui stanno emergendo altri dettagli – e un video –, conclusasi con il pestaggio del personal trainer.

Le ultime notizie derivano dal saldarsi di questa storiaccia con il filone investigativo riguardante i patti criminosi fra gli ultras delle due squadre della metropoli lombarda, dai quali – versante milanista – Federico Leonardo Lucia (in arte “Fedez”) attingeva i suoi bodyguard.

E, verosimilmente, sono proprio gli ultrà dell’inner cicle del cantante ad avere composto la squadraccia della spedizione punitiva contro Iovino. Il vip che arriva da Rozzano, come ama ricordare, intendendo con questa “denominazione di origine geografica” che là vige la «legge della strada», e lui sa come farsi “rispettare”.

Ora, si può anche fingere di tralasciare il fatto che – pur comparendo effettivamente la località alle porte di Milano nei primi dieci posti del ranking sulla maggiore incidenza criminale della Polizia di Stato – alle tante persone oneste che vi abitano non farà plausibilmente tutto questo piacere essere oggetto di cotanta generalizzazione da parte dal notissimo personaggio dello show business.

E pure concedendo l’attenuante (per così dire...) dello sbandamento successivo al naufragio del matrimonio, anche se è appunto passato del tempo, nel caso del rapper di “Rozzangeles” pare di cogliere due questioni molto serie: una strettamente personale e una di ordine più generale.

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La prima riguarda l’ormai evidente errore, compiuto da vari settori dell’opinione pubblica e dei media, di averlo sopravvalutato sotto tanti (troppi) profili. Al punto da averlo addirittura trasformato, in virtù dei suoi sermoncini e delle sue prediche attentamente pianificate, in una specie di maître-à-penser della sinistra (cosa che molto ci dice della facilità con la quale in talune circostanze ampi settori dirigenti del mondo progressista riescono a scambiare fischi per fiaschi).

Nel suo ruolo di influencer – ovvero grazie alla potenza di fuoco del poderoso seguito di simpatizzanti sui social – Fedez era riuscito a farsi “istituzione” tramite quello che non si può non definire come un impegno politico-civile alquanto “peloso”.

Mentre continuava, a quanto pare, a coltivare una vita assai spericolata, campione, insieme alla moglie Chiara Ferragni, di una (inesistente) moralità a fin di business anziché di bene. E, in verità, non vi sarebbe stato nulla da eccepire – questo fanno gli influencer, ovvero monetizzano i like e il gradimento dei loro followers – se la coppia, solo ed esclusivamente per differenziare e allargare il proprio volume di affari, non avesse deciso di impartire lezioni di (superiorità) morale.

Adesso pare quasi di “sparare sulla Croce rossa” e, tuttavia, il vaso è stato scoperchiato unicamente perché – per fortuna – la realtà ha la testa dura e ha fatto emergere i veri comportamenti border line e grigi, ben al di là della legalità (e sicuramente della legittimità etica, a proposito...), del rapper.

D’altronde, si potrebbe dire – di nuovo con riferimento alla sua orgogliosa (e discutibile) rivendicazione del proprio “sangue rozzanese” – che c’è anche della coerenza.

Fedez aveva un po’ ripulito le canzoni e si presentava politicamente engagé in una logica di posizionamento strumentale a fini di guadagno, vale a dire con l’attenzione rivolta più ai propri conti bancari che ai diritti altrui.

Ma, appena se ne presentava l’occasione, riaffioravano un’estetica e i comportamenti da macho di banlieue in linea con la musica che va per la maggiore fra le nuove generazioni: la trap.

Sia chiaro: qui nessuno vuole eccedere in moralismo (a differenza di quanto faceva, invece, proprio lui).

E si resta ben consci del fatto che tra i contenuti giudicabili come negativi – o discutibili – dell’arte e la condotta privata di chi la crea non vi è necessariamente un rispecchiamento o una coincidenza. Come pure per l’inverso, anche se diversi trapper finiscono regolarmente coinvolti in episodi di criminalità, spaccio e sparatorie.

Nondimeno, bisognerebbe seriamente cominciare a pensare all’influenza che questo sottogenere dell’hip hop – tanto amato anche da chi fa parte delle baby gang – possiede nei confronti dei più giovani, per i quali fa spesso da colonna sonora della giornata.

Una musica che non è sociologia delle periferie, ma uno spettacolo di (alquanto) dubbio gusto per fare business, che si traduce in una predicazione da “cattivi maestri” fra misoginia, sessismo, insulti alle donne considerate inferiori ed esaltazione del crimine, della violenza e della droga. Uno show tossico, che pure nessuno vuole proibire in questa sede, sapendo bene che il compito di educare spetta alla scuola e alle famiglie, e non all’industria dello spettacolo.

Eppure in questo caso avrebbe ragioni da vendere la novecentesca Scuola di Francoforte e, data la forza soverchiante di questo filone musicale e delle piattaforme digitali che lo veicolano, non si dovrebbe neppure assistere all’«effetto che fa» in maniera completamente inerte e rassegnata. —