Alla fine Kruscev lasciò il potere
Rientrando dal mar Nero, dopo qualche giorno di vacanza (15 ottobre 1964) Nikita Kruscev, plenipotenziario (fino a quel momento) del Partito comunista sovietico, seppe di aver dato le dimissioni per «motivi di salute» dei quali non era a conoscenza. E gli andò anche bene. In Russia, informazioni del genere venivano tipicamente comunicate quando l’interessato si trovava già sul treno, diretto in qualche gulag della Siberia o - in casi non isolati - direttamente di fronte al plotone d’esecuzione. Ma, certo, con il numero uno della nomenclatura, sembrava appropriato ricorrere a una procedura più morbida. La congiura degli apparatcik comunisti - avviata fra perplessità ed esitazioni - prese consistenza quando la primavera aveva già iniziato a farsi sentire.
In prima battuta, a tirare le fila per «silurare» Kruscev fu Michail Andreevic Suslov che, dalla fine della Seconda guerra mondiale, si era trovato a muoversi sulle montagne russe. Premiato e poi punito da Stalin, recuperato e poi deposto da Kruscev che gli tolse anche la presidenza della commissione sull’ortodossia ideologica. Dunque, la sua opposizione alla leadership del partito non si spiega con ragioni esclusivamente politiche. La sua fu, piuttosto, una rivalsa nel tentativo di riprendersi un ruolo nella gerarchia di partito. Del resto, anche chi - strada facendo - lo assecondò, ai motivi di malcontento per l’azione di governo, sovrappose rivendicazioni del tutto personali.
L’establishment sovietico aveva mantenuto un’impronta conservatrice e quelle pur timide spinte di vago sapore progressista avevano messo di cattivo umore i vertici delle forze armate e quelle dei servizi segreti del Kgb. Beninteso: si trattò di aperture liberali più propagandate che concrete. Il discorso (1956) al plenum comunista per denunciare gli eccessi della politica delle «grandi purghe» di Stalin, i colloqui «distesi» con l’allora vicepresidente statunitense Richard Nixon (1959) arrivato a Mosca per inaugurare l’Esposizione americana, o la scarpa brandita nel corso dell’assemblea dell’Onu (1960) per contestare chi lo accusava d’imperialismo, abbagliarono l’opinione pubblica che ne rimase persino affascinata e che non si accorse di quanto il sistema repressivo sovietico non fosse affatto cambiato. Nello stesso 1956 della «destalinizzazione», assecondò l’invasione dell’Ungheria che non rinnegava il comunismo ma riteneva di declinarlo «a misura d’uomo». Nel 1961 lasciò mano libera a Walter Ulbricht per la costruzione del muro di Berlino per separare i quartieri capitalisti da quelli sovietici.
Insomma: contraddizioni e incertezze imbastite con timidi passi in avanti e fulminei ritorni al passato. I falchi del regime accettarono le sue iniziative ma senza condividerle del tutto. E lui, Kruscev, con finta indulgenza sopportò la fronda interna, senza sforzarsi di mediare con gli oppositori alla ricerca di un’azione politica condivisa. Tuttavia, non solo di questioni di politica si trattò. Fra le decisioni da collocare fra le impopolari, figurò quella di annullare le «buste» che, oltre allo stipendio e fuori dal conteggio delle tasse, venivano assicurate ai vertici del partito e ai comandanti militari. Un premio non di poco conto perché arrivava a raddoppiare (quasi) il salario ufficiale. Poi Kruscev propose di eliminare le «cellule di partito» dalle direzioni agricole mettendo in allarme la burocrazia del Pcus che in questa riforma vedeva una perdita di potere e di autorità. Infine, i «vecchi» si sentirono minacciati dal progetto di allargare il «Presidium» per consentire l’ingresso ai giovani, destinati a diventare potenziali avversari nella scalata sociale. Ovvio che non si poteva imbastire un’opposizione sulla preoccupazione di essere scavalcati dalle generazioni a venire, ma la conclusione della crisi dei missili a Cuba - quella sì - poteva diventare una questione spendibile per un regolamento di conti interno.
La vicenda si era trascinata per mesi dal maggio 1962, quando i sovietici immaginarono di attrezzare una base missilistica alla periferia sud-ovest di L’Avana. Il progetto rimase avvolto in una nube di segretezza fino agli inizi di ottobre, quando gli americani, dal monitoraggio di aerei-spia, scoprirono i piani di Mosca. La reazione fu perentoria. Il presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, dichiarò che non avrebbe consentito l’attivazione di un arsenale a poche miglia dalla costa della Florida. Praticamente nel cortile di casa. Per qualche momento il mondo rischiò la Terza guerra mondiale. Alla fine, Kruscev rinunciò al braccio di ferro e ordinò alle navi che trasportavano le testate missilistiche di invertire la rotta e tornare indietro. Il mondo elogiò la sua ragionevolezza ma non a Mosca, dove montò il disappunto per una decisione che andava intesa come una sconfitta. L’immagine di potenza dell’Unione Sovietica sarebbe stata offuscata. L’esercito si sentì umiliato da chi - evidentemente spaventato - aveva mollato la presa.
Con queste motivazioni, Suslov - nella congiura contro Kruscev - riuscì a ottenere l’adesione di Aleksandr Shelepin, che fino a pochi mesi prima era stato il direttore dei servizi segreti del Kgb, e di Vladimir Semichastnyj, che gli era subentrato. Il generale Rodion Malinovskij, eroe della Seconda guerra mondiale, comandante in capo delle forze terrestri e ministro della difesa, assicurò il consenso dei vertici militari. L’ultimo della partita fu Leonid Breznev: acquisito con la promessa di subentrare come successore alla carica di segretario del Pcus. La discussione sullo stato di salute di Kruscev, e quindi delle sue dimissioni, avvenne nella sede del Presidium che, oltre ai membri effettivi, fu «rafforzato» dalla presenza dei ministri del governo e di alcuni segretari regionali del partito. La discussione - riferirono - fu accesa ma senza accenti esageratamente tempestosi. Suslov parlò per primo con un intervento che ebbe la struttura di una requisitoria d’accusa. Gli altri si aggiunsero: chi precisando, chi fornendo ulteriori dettagli e chi potenziando gli argomenti d’imputazione. L’unico accenno di difesa venne da Anastas Mikojan, un armeno che dal Caucaso aveva iniziato la sua scalata ai vertici comunisti. Secondo lui, chiedere le dimissioni di Kruscev poteva anche essere accettabile. Ogni periodo - compreso quello delle cariche pubbliche - conosce una fine. Ma perché congedare un «compagno» coprendolo di gratuite villanie?
Kruscev, per temperamento, non era un uomo che rinunciava alla lotta e reagì alle accuse proponendo le sue tesi ed evidenziando che, con il suo governo, l’Unione Sovietica - altro che potenza rinunciataria - era più forte e rispettata. Quella che i suoi detrattori definivano «la brutta figura dei missili a Cuba» andava registrata fra i successi perché la Russia aveva aumentato la sua credibilità. I numeri, tuttavia, non gli lasciavano scampo. Aveva da scegliere se andarsene volontariamente accettando di percorrere la strada delle dimissioni (come suggerito dai congiurati) o affrontare l’umiliazione della destituzione violenta. Si prese una notte per decidere.
Le indiscrezioni «del poi» riferirono che non riuscì a dormire nemmeno un momento, ma che cenò con discreto appetito e a chi stava accanto non parve turbato più del dovuto. Conosceva le regole del gioco sovietico al quale aveva partecipato da protagonista. Lui stesso - installatore di tubi, figlio di contadini - riuscì ad affrancarsi da una condizione di sudditanza, sgomitando al momento opportuno con le persone che, in quel momento, potevano essergli utili. Prima segretario a Kiev, poi nel Politburo e nel Presidium fino a raggiungere il Soviet. Alla morte di Stalin (5 marzo 1953) diventò segretario del Pcus perché la cordata della quale faceva parte, manovrando dietro le quinte, ebbe la meglio sugli avversari. Il favorito alla successione era Lavrentij Berija, che occupava gli incarichi di ministro degli interni e di capo della polizia segreta. Ma Kruscev, accordandosi con gli altri della vecchia guardia - Georgij Malenkov, Lazar Kaganovic, Vjacelav Molotov e Nikolai Bulgarin - lavorò per ribaltare i pronostici. E per non correre il rischio di trovarsi con un oppositore dichiarato nell’ufficio centrale, come primo atto lo fece destituire e imprigionare con l’accusa di essere al soldo di potenze straniere. Il braccio destro di Stalin trovò così il plotone d’esecuzione.