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PNRR: l'impaccio è a Bruxelles

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La Corte dei conti europea ammonisce gli alti organi comunitari sulla realizzazione del piano Next Gen Eu: se ci sono ritardi è colpa di una cattiva gestione centrale.

C’è un fondo di verità quando si afferma che i fondi europei post-Covid non vengano utilizzati a dovere. Il punto, però, è che la responsabilità non appartiene tanto ai singoli Paesi, quanto all’Europa stessa. A dirlo, in maniera piuttosto nitida, non è nessun cosiddetto «anti-europeista» che potrebbe essere tacciato di complottismo, bensì - udite udite - la Ue. In altre parole, è Bruxelles che si auto-accusa, riconoscendo come più di qualcosa nella gestione dei finanziamenti non funziona a dovere. Leggere per credere: «Nei primi tre anni del dispositivo per la ripresa e la resilienza (Pnrr), istituito dall’Ue con una dotazione di 724 miliardi di euro, si sono osservati ritardi nell’erogazione dei fondi e nell’attuazione dei progetti». Parola della Corte dei conti europea che in una dettagliata relazione sottolinea quali siano i problemi riscontrati nella gestione dei fondi, dato che sono stati trasferiti «solo 213 miliardi di euro dalla Commissione alle casseforti nazionali». Non solo. «Non è detto poi che questi soldi siano arrivati ai destinatari finali, fra cui imprese private, società pubbliche di servizi energetici e scuole. Di fatto, quasi la metà dei fondi erogati [...] non aveva ancora raggiunto i destinatari finali». Ed ecco allora la domanda delle domande: la colpa è davvero dei singoli Stati? Davvero, per quanto riguarda l’Italia, si può dire che tutto il peso della gestione dei fondi sia responsabilità del ministro Raffaele Fitto, peraltro da poco nominato membro della Commissione Ue? Secondo gli euro-magistrati contabili, la risposta è no. La relazione, infatti, si concentra sulla «frequenza dei motivi alla base dei ritardi nel conseguimento dei traguardi e degli obiettivi». Tanto la «complessità delle procedure nazionali» quanto la «capacità amministrativa» occupano l’ultimo posto di questa «classifica» dato che tali due motivi ricorrono «soltanto» nel 23 per cento dei casi.

Quali sono allora le principali motivazioni alla base dei ritardi? Nell’81 per cento dei casi la responsabilità è legata al «mutare delle circostanze esterne». Un esempio su tutti? Semplice. La guerra in Ucraina in corso dal febbraio 2022, che ha causato in Europa un’impennata dell’inflazione e prezzi record dell’energia. Questo ha fatto sì che alcuni progetti abbiano via via perso di interesse. E Bruxelles fa un esempio che riguarda proprio il nostro Paese: è stato rinviato l’appalto per la costruzione di 2.500 stazioni di ricarica rapida per veicoli elettrici, proprio perché nessun soggetto ha presentato domanda per una parte della misura. La ragione? Carenza di materie prime. Torniamo, però, alle ragioni che determinano ritardi nella gestione e assegnazione dei finanziamenti europei. Nel 77 per cento dei casi si riscontra una «sottovalutazione del tempo necessario per attuare le riforme». Cosa vuol dire questo? Che da una parte Bruxelles ha chiesto progetti innovativi per accedere ai fondi, e dall’altra non ha concesso poi i margini temporali per attuare quei progetti stessi. Sembra assurdo, ma è tutto vero. E c’è anche dell’altro.

«Le autorità nazionali - scrivono ancora i magistrati - hanno dichiarato che le informazioni o il livello di dettaglio da includere nei rispettivi Pnrr sulla maturità dei progetti nella riserva non erano chiari, in quanto non erano specificati negli orientamenti della Commissione». Insomma, tempi sottostimati e indicazioni piuttosto generiche. Finita qui? Certo che no. Perché, secondo la Corte, i ritardi dipendono da altri due fattori piuttosto curiosi: nel 54 per cento dei casi si riscontrano «problematiche inerenti gli appalti pubblici» e 4,2 volte su dieci tutto dipende dalla «applicazione delle norme in materia di aiuti di Stato». In altre parole, sono le stesse normative europee che stanno determinando i grossi problemi del Pnrr. Parola ai magistrati contabili: nel regolamento per l’accesso ai fondi Ue, «si ricorda che sono applicate le norme generali a tale riguardo e che gli Stati membri devono far sì che tutte le riforme e gli investimenti inclusi nei Pnrr siano conformi alle norme dell’Europa in materia di aiuti di Stato e seguano tutte le procedure in proposito». Peccato che «la definizione e l’ottenimento dell’approvazione dei regimi di aiuti di Stato hanno richiesto molto tempo». Tra gli esempi più eclatanti di cui si fa cenno nella relazione, riguarda la Romania, dove si prevedeva un investimento per la creazione di impianti per la produzione, l’assemblaggio e il riciclaggio di batterie nonché di celle e pannelli fotovoltaici. Ebbene, «il primo traguardo, di cui il piano prevedeva il conseguimento nel terzo trimestre del 2022, era la firma dei relativi contratti d’appalto. Tuttavia, è stato raggiunto solo con un ritardo di oltre otto mesi». Otto mesi per una firma.

Non solo. Le autorità rumene sono andate avanti, avviando la procedura di notifica preventiva nel maggio 2022 per il regime di aiuti di Stato (prassi usuale in questi casi). Tale processo di mera notifica, però, è durato sette mesi. Pertanto, nel gennaio 2023, in Romania è stato comunque pubblicato l’invito a presentare proposte per l’investimento, che comprendeva una clausola sospensiva dal momento che il regime di aiuti di Stato non era ancora in vigore e dato che Bruxelles ancora non dava il suo via libera. Tale regime, infatti, è stato approvato solo nel febbraio 2023. Tempi biblici, dunque, per obbedire alle regole Ue. E i risultati dopo tutta questa attesa? Modestissimi. «Dai colloqui intrattenuti con le autorità rumene è emerso che l’incertezza circa la validità del regime di aiuti di Stato aveva comportato un modesto tasso di risposta». Ed ecco il cortocircuito: da una parte l’Europa chiede tempi celeri sottovalutando quanto invece occorrerebbe per dare concretezza a progetti innovativi, dall’altra le regole stesse a cui bisogna sottostare sono arzigogolate e macchinose. E il risultato è che se ci si muove velocemente derogando e rinviando eventuali via libera della Commissione (ad esempio sugli aiuti di Stato) nessuno - o quasi - risponde agli appalti dato che, in ultima istanza, non ci si fida poi tanto dell’Europa.

Ma siccome al peggio non c’è fine, a riprova di quanto la gestione dei fondi Ue da parte della presidente Ursula von der Leyen, sia piuttosto ballerina, ecco il capitolo specifico per la transizione ecologica. Secondo le conclusioni di una nuova relazione della Corte dei conti europea, il contributo del dispositivo per la ripresa e la resilienza all’azione per il clima e alla transizione verde, «non è chiaro». E per quale ragione, visto che ben il 37 per cento dei fondi europei è stato riservato all’azione per il clima? A oggi, infatti, neanche la metà di questo pacchetto è stato speso (siamo intorno al 42 per cento), circa 275 miliardi. Secondo la Corte, poi, questi contributi potrebbero essere sovrastimati di almeno 34,5 miliardi di euro. In altre parole, sono stati dati soldi per progetti «green» senza che questi stessi progetti siano effettivamente «verdi». Qualche esempio? In Grecia si vuole costruire una nuova centrale idroelettrica ad accumulazione con pompaggio, per godere di un’energia a più alta gamma di potenza e di una maggiore durata di vita rispetto alle batterie e ai sistemi di stoccaggio dell’idrogeno. Peccato però che il progetto sia come minimo poco sostenibile dal punto di vista ambientale, dato che contribuisce alla perdita di biodiversità nella vita acquatica. A Bruxelles nessuno ci aveva pensato.

Esattamente come accaduto in Portogallo, dove è stato assegnato un coefficiente del 100 per cento - il massimo punteggio per accedere ai fondi «green» - per un progetto forestale di adattamento ai cambiamenti climatici.