Ungaretti, il soldato – poeta e quel miracolo sul monte San Michele
Giuseppe Ungaretti viene arruolato nell’Esercito italiano il primo giugno 1915. Per un esaurimento nervoso e problemi alla vista viene ricoverato all’ospedale di Biella.
A causa delle ingenti perdite subite sul fronte carsico devono essere inviati al fronte anche militari riconosciuti meno abili, e nel dicembre di quell’anno il poeta viene destinato al 19° reggimento della Brigata Brescia, schierata ai piedi del monte San Michele, massiccio su quattro cime di altezza variabile tra i 220 e i 275 metri.
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Le cime del monte, saldamente presidiate da quattro reggimenti ungheresi, sono sbarrate da tre linee continue di trincee. Poco sotto si trovano le trincee italiane, buche rinforzate da pietre, sacchi di terra e, non poche volte, cadaveri che era impossibile rimuovere.
In queste buche, «affogato nel fango», come scrive all’amico e maestro Giovanni Papini, Ungaretti passa circa due mesi, in cui ha modo di conoscere la realtà della trincea. Contrae, come molti suoi compagni, un principio di congelamento ai piedi, il cosiddetto “piede da trincea”, che lo farà molto soffrire.
Immerso in una realtà terribile, il poeta cerca di dare un senso all’esperienza che vive. Nasce così il suo particolare “diario di guerra”, appuntato nervosamente in trincea e rimeditato nei brevi periodi di riposo del reggimento, acquartierato nel borgo friulano di Versa, a pochi chilometri dal fronte. E a Versa incontra Ettore Serra, l’ufficiale che diventerà l’editore de Il porto sepolto.
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Ritornato al fronte, tra il villaggio di San Martino del Carso e le pendici del monte San Michele, Ungaretti affronta, nella notte tra il 14 e il 15 maggio 1916, il battesimo del fuoco. Reparti ungheresi tentano di occupare alcune trincee nei pressi della Sella di San Martino, ma vengono ricacciati dal pronto intervento dei fanti del terzo battaglione. «All’alba c’è stato un putiferio del diavolo, ce la siamo cavata bene», annota compiaciuto.
Il 29 giugno 1916 dal San Michele reparti ungheresi lanciano del gas giallastro, una mistura di cloro e fosgene che, complice il vento, scende sulle prime linee italiane causando non meno di seimila morti tra i militari che presidiavano le trincee. Il primo battaglione del 19° reggimento è spazzato via dal gas, il secondo subisce gravi perdite.
Per un disegno del destino, o del caso, il terzo battaglione, quello di Ungaretti, solo 48 ore prima riceve l’ordine di portarsi a Mariano, di scorta al battaglione comando. Un ordine provvidenziale salva Ungaretti dal gas, ma la visione di tanti compagni morti lo impressiona fortemente. Scriverà: «Non ci sono più foglie sul monte, né cicale, né grilli; e c’è rimasta la mia morte, viva».
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A inizio agosto 1916 la sesta offensiva dell’Isonzo porta alla conquista di Gorizia, del San Michele e alla caduta del primo fronte carsico. La mattina del 10 agosto i soldati del 19° reggimento, fino ad allora appiattiti nelle trincee sotto Cima Quattro, raggiungono la vetta deserta del monte. Nella cartolina spedita il giorno stesso a Papini, «dal San Michele conquistato», Ungaretti esulta: «Ho visto cose meravigliose: il miracolo: i feriti non avevano dolori. Si vede il mare, si vede il mare».
Alcuni mesi dopo, a Santa Maria la Longa, invia a Papini la poesia Cielo e mare, datata 26 gennaio 1917: «M’illumino / d’immenso / con un breve / moto / di sguardo», che in seguito, senza i versi finali, diventerà la più nota Mattina.
Conquistata Gorizia, il San Michele e le trincee del primo ciglione carsico, la guerra continua, esattamente come prima, con morti, atrocità e sofferenze, qualche chilometro più a est. In trincea sotto i bombardamenti, all’aperto e al freddo, Ungaretti è stanco e sofferente. Le difficili condizioni esistenziali lo esasperano, la sporcizia e l’igiene inesistente complicano il suo già precario quadro psicofisico.
In questo periodo, nei brevi periodi di riposo nelle retrovie, prende forma la redazione finale de Il porto sepolto, pubblicato nel dicembre 1916 a Udine. Subito dopo usufruisce della licenza invernale e parte, con lo zaino zeppo di volumi, alla volta di Napoli e Firenze. Ritornato al reparto, sarà ricoverato in un ospedale militare per curare il congelamento alle dita dei piedi. Dichiarato inabile alle fatiche di guerra, il 25 aprile 1917 viene aggregato alla 43ª compagnia presidiaria con compiti prevalentemente burocratici.
Il 24 ottobre 1917 l’esercito austroungarico, rinforzato da unità tedesche, attacca con il gas tra Plezzo e Tolmino. La manovra coglie di sorpresa le armate italiane, costrette a una rovinosa ritirata. Negli ultimi giorni di ottobre Ungaretti abbandona il Carso e si ritira con la sua unità oltre il Piave. Nei mesi seguenti ritorna al reggimento, come voleva, e segue le sorti della Brigata Brescia, trasferita con il II Corpo d’Armata in Francia, sul fronte delle Argonne.
Passerà ancora un lungo anno di guerra, patendo le fatiche della trincea a causa delle sue precarie condizioni fisiche, finché agli inizi di ottobre del 1918 verrà nominato caporale e trasferito alla redazione parigina del “Sempre avanti” diretto dal tenente Gino Berri, giornalista del “Corriere della Sera”. Finisce così la guerra di Giuseppe Ungaretti, soldato e poeta. —
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