Maison Valentino, secondo Alessandro Michele
La bellezza come forma di salvezza. Parte da qui la visione di Alessandro Michele, al suo debutto come direttore creativo di Valentino. In uno spazio che appare abbandonato — la luce fioca delle lampade che filtra attraverso larghi teli bianchi — come la casa della Miss Havisham di Grandi Speranze, lo stilista si apre a una riflessione sul senso della vita, sulla fragilità umana e sulla bellezza.
Bellezza che, per Michele, non è estetica fine a se stessa, e nemmeno un ideale universale e immutabile, ma un'epifania improvvisa, un disvelamento, che avviene ogni volta che ci mettiamo in contatto con qualcosa di vero, profondo e significativo. Questa «alètheia», come la chiama citando Heidegger, è la chiave del suo lavoro: la bellezza non serve, ma rivela, e nel farlo ci permette di resistere alla «insensatezza» del nostro destino.
La sua prima collezione da Valentino si presenta così come ideale incarnazione di questa visione, dove ogni abito diventa un veicolo per trasmettere emozioni e significati che vanno oltre il visibile, evocando una realtà inafferrabile che incendia i sensi. Mentre la carezza di un volant di organza o la trasparenza di un tessuto leggero diventa un rifugio contro la caducità della vita.
E a chi paragona la nuova collezione al suo lavoro per Gucci, Alessandro Michele parla di «autenticità». Perché, in fondo, nonostante il magistrale studio degli archivi, quello che è andato in scena a Parigi è lo specifico marchio di eclettismo cui il creativo ci ha abituato. E per cui Michele è amato e odiato con la stessa intensità.
Piuttosto che parlare di coerenza o azzardare paragoni con il lavoro di Pierpaolo Piccioli — direttore creativo di Valentino dal 2008 al 2024 — bisognerebbe forse, a margine di questo atteso debutto, tornare a una riflessione sul ruolo dello stilista, non più sublimato al servizio del marchio ma protagonista assoluto della narrazione estetica della maison.