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Сентябрь
2024

Ottavia Piccolo: «Laguna, un sogno che supera i secoli, fondato su tenacia e caparbietà»

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Qui lo chiamano “caigo”. È un velo sottile, impalpabile, che avvolge la città come un manto. A quindici anni mai avrei immaginato che esistesse una parola per definirlo.

Era la mia prima volta a Venezia e ricordo distintamente il suono lieve della pioggia sui ciottoli delle calli, il rumore lontano di qualche passo, il silenzio calato su ogni cosa. Non è stato certo un incontro tradizionale: non la conobbi sotto i portici di San Marco o nel panorama di Punta della Dogana. La intravidi da lontano, quasi sfuggente, arroccata nella laguna, custodita da una coltre di nebbia.

Era il 1964 e Giorgio Strehler ci portò con tutta la compagnia a Chioggia. Era convinto fosse una tappa imprescindibile prima dello spettacolo, necessaria per immergersi nello spirito più genuino delle “Baruffe” dei pescatori. Poi la vita è andata avanti e spesso, tra una tournée e l’altra, capitò di farci tappa.

Anni dopo, appena concluse le riprese del film “Mado” con Michel Piccoli, tornai dalla Francia e decisi assieme a mio marito di regalarci una vacanza speciale, la prima vera della nostra vita.

Era uscito da poco “Morte a Venezia” di Luchino Visconti e, naturalmente, subimmo il fascino dell’Hotel des Bains con la sua facciata liberty, i sontuosi lampadari di Murano e le ampie vetrate sul mare. Non avevamo alcun dubbio: era lì che dovevamo trascorrere i nostri quindici giorni insieme. Così, con qualche risparmio da parte, prenotammo una camera con capanna inclusa.

Mio marito, anni prima, aveva lavorato per il Gazzettino ed era sicuro che il Lido potesse essere la destinazione ideale, l’unico posto in cui rifugiarsi senza ritrovarsi nella tipica ressa estiva delle destinazioni balneari. E aveva ragione.

«Frattanto i suoi occhi salutavano il mare, ed egli provava gioia al pensiero di avere Venezia così vicino», scriveva Thomas Mann. E io stessa mi scoprii a provare le stesse emozioni.

La prima sera, vestiti di tutto punto per andare a cena nell’elegante salone, ci dissero che non potevamo entrare nel ristorante con un bambino così piccolo.

Mio figlio aveva appena un anno. Disorientati e delusi, ci rifugiammo in camera dove cenammo per il resto della vacanza. Un angolo bellissimo, ma che tristezza! Quando arrivava la mattina, scendevamo in spiaggia e ci sistemavamo nella nostra capanna, cullati dal ritmo lento dell’estate.

Il tempo scorreva lento e placido, accompagnato dalle chiacchiere con i vicini. Non passò molto che ci sentimmo già parte della comunità lidense: un senso di appartenenza che non ho mai smesso di provare. Era il periodo della Mostra del Cinema e il Lido si trasformava in un palcoscenico internazionale. Attori, registi e produttori arrivavano da ogni parte del mondo. Alla fine di quei quindici giorni, ne eravamo certi: da quel momento in poi saremmo tornati tutte le estati.

Ogni anno, caricavamo la macchina e partivamo da Milano. Saliti sul ferry a Venezia, scorgevo la sagoma dell’isola apparire in lontananza.

«Ecco, mi sento a casa», pensavo sollevata. E non mi è più capitato in nessun altro luogo: percepivo un senso di felicità viscerale. Il destino, poi, fece capolino tra le pagine di un giornale. Spuntò un annuncio: «In vendita casa a San Nicolò».

Non era certo un nome nuovo. San Nicolò lo scoprimmo per puro caso qualche estate prima in un pomeriggio trascorso in bicicletta. La strada era deserta e così approfittammo per percorrere indisturbati tutta l’isola fino alla punta più a nord. La prima cosa che mi colpì fu il silenzio.

A San Nicolò tutto sembrava sospeso, fermo nel tempo, come se quel lembo di terra volesse proteggersi dall’inarrestabile scorrere degli anni. La chiesa con le sue mura antiche sembrava custodire i segreti del passato.

A poca distanza, l’ex Caserma, ormai abbandonata, si ergeva come testimone di una storia che nessuno raccontava più. Ci rendemmo subito conto che avevamo trovato qualcosa di prezioso: la nostra isola felice. San Nicolò ci aveva conquistati e, di lì a poco, non fu più solo una località dove trascorrere le vacanze. Ancora oggi mi chiedono perché non siamo rimasti a vivere a Roma o a Milano.

«C’è tutto e non ci si annoia mai», commentano perplessi. E ogni volta rispondo che alle eterne bellezze di Roma e all’instancabile frenesia di Milano manca la caparbietà di Venezia: una determinazione ferrea che ha portato l’uomo a gettare le fondamenta di una città in luogo impossibile e a credere in un sogno fragile che ha resistito a secoli di acqua e vento. E in quel gesto ostinato, nella tenace sfida alla natura, percepisco una forza che non ho mai ritrovato altrove.

Ogni mattina, quando apro le finestre, mi perdo ad ammirare la laguna come fosse la prima volta. Il sole sorge lentamente, creando giochi di luce che si disperdono nella nebbia sottile tutt’intorno. I gabbiani volano bassi e il loro richiamo si mescola al suono lontano delle barche che scivolano sull’acqua.

Chiudo la finestra e preparo i vestiti per uscire. Sono quasi le dieci e non posso fare tardi: le mie amiche lidensi mi aspettano in pasticceria per il solito caffè e si preoccuperebbero se non mi vedessero arrivare. Venezia non è certo un luogo che ho cercato, ma è arrivata, come i migliori incontri della vita, per caso.

Attrice in viaggio tra teatro e cinema

Nata a Bolzano nel 1949, Ottavia Piccolo inizia giovanissima a calcare il palcoscenico: a 11 anni è Helen, la protagonista di “Anna dei miracoli” di William Gibson, per la regia di Luigi Squarzina. Anche l’esordio cinematografico è importante: è una delle figlie del Principe di Salina in “Il Gattopardo” di Luchino Visconti (1963). Nel 1964 conosce Giorgio Strehler, che la dirige in “Le baruffe chiozzotte”. Vincitrice della Palma d’oro come migliore attrice al festival di Cannes nel 1970 per il film Metello (1970), è anche una stimata doppiatrice.