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Сентябрь
2024

Paolo Giordano «I nostri desideri per non subire la tecnologia e l’Ai»

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Viviamo un’epoca di rivolgimenti che subiamo come ineluttabili, ma siamo sicuri che lo siano davvero, e che questo sia ciò che vogliamo? A partire dalle intelligenze artificiali lo scrittore e fisico Paolo Giordano riflette sulle sfide del nostro tempo, sul rapporto fra società e scienza, e sul ruolo della letteratura oggi.

Giordano sarà uno dei grandi protagonisti di Trieste Next, il festival della ricerca scientifica che si terrà a Trieste dal 27 al 29 settembre, quest’anno promosso anche da Nord Est Multimedia (Nem), il gruppo che edita Il Piccolo.

Qualche anno fa i chatbot sembravano fantascienza mentre oggi sono un’interfaccia comune sui siti di enti e imprese. Quanto pesa l’Ai sulle nostre vite, e come saremo messi fra dieci anni?

«L’estrapolazione a dieci anni è impossibile da fare oggi. Questo, per quanto mi riguarda, è uno dei grandi punti di inquietudine, più che di eccitazione. C’è un po’ una moda catastrofista riguardo l’intelligenza artificiale, fenomeno che tendiamo a trattare in modo religioso: come qualcosa che distrugge o salva. Non farà né l’uno né l’altro, come quasi sempre accade: porterà cambiamenti.

Ecco, quel che non mi fa sentire a mio agio è la sensazione di impossibilità di proiezione nel futuro, dovuta a una tecnologia che evolve in maniera rapida e, per sua natura intrinseca, in modo autonomo.

Siamo sicuri sia questo che desideriamo? Quanto di quel che abbiamo messo in moto è davvero conseguente a un desiderio collettivo da noi espresso? Sembra invece sia qualcosa che lasciamo andare come non ci fosse possibilità di scelta. Questo lo trovo molto frustrante rispetto alla tecnologia, e in modo specifico per l’Ai. Sembra sia ineluttabile lasciare che sia pervasiva, ma forse non lo sarebbe se riprendessimo in mano i nostri desideri come civiltà».

Il senso di ineluttabilità non è una costante dell’oggi? Non somiglia al senso di rassegnazione che sentiamo quando si parla di lotta al cambiamento climatico?

«Qui vediamo un rovesciamento. Il cambiamento climatico è un effetto secondario di vecchie tecnologie, del nostro affidarci a un vecchio modello di civiltà industriale: è un conto che ci viene presentato dall’industrializzazione fin dai suoi inizi, dall’Ottocento, e dalla nostra difficoltà di concepire nel profondo modelli nuovi.

Cosa che ad un certo punto faremo, quando saremo messi alle strette. Ma non ancora. Con l’Ai in un certo senso è il contrario, qualcosa che noi mettiamo in moto e da cui poi ci lasciamo trasportare. In questo senso ha più affinità con ciò di cui parlo nel mio ultimo libro (Tasmania, Einaudi 2022), il rapporto dell’uomo con le tecnologie atomiche.

Lì l’uomo ha posto in essere qualcosa che superava la sua capacità di controllo ed è stato a guardare dove sarebbe arrivato, senza porre all’inizio un correttivo etico. Cosa ci impedisce di produrre una nuova tecnologia e al tempo stesso di rivendicare il primato etico su ciò che produciamo? Di nuovo, e non a caso, per il protagonismo di alcuni, nello specifico scienziati ma soprattutto oggi imprenditori, maschi… Di nuovo cediamo a quel tipo di tentazione. Lo trovo molto frustrante».

Come si risolve?

«Non penso ci sia una chiave risolutiva. È piuttosto questione di accompagnare, di non credere che il pensiero sulla scienza e la tecnologia debba per forza nascere a conseguenze avvenute. C’è molto qui dell’accoppiamento tra il pensiero sul mondo e il suo andamento tecnico e tecnologico. Qualcosa che non abbiamo ancora sanato dal Novecento e che andrebbe ricollocato. Questo vale per tutto, per l’approccio al cambiamento climatico e via dicendo.

È chiaro che qualunque problema scientifico e tecnologico oggi richieda il coinvolgimento di tanti soggetti: filosofia, sociologia, economia, letteratura. Tutti sono chiamati a far parte del processo. Altrimenti chi produce le tecnologie, e ci fa i soldi sopra, deciderà come queste vengono impiegate nel mondo».

A proposito di nucleare, oggi si parla di ritorno al terrore per la guerra atomica.

«Fa sorridere, perché il nucleare non se n’è mai andato, gli arsenali sono sempre stati strapieni. Abbiamo creduto all’idea un po’ infantile che la deterrenza fosse davvero un sigillo di pace o di assenza di conflitti. Dall’invasione dell’Ucraina quel paradigma è completamente decaduto, e il nucleare è semmai una garanzia di aggressione da parte dello stato che ce l’ha verso chi ne è sprovvisto. Siamo appieno dentro all’era atomica».

Lei è fisico, quanto pesa oggi l’Ai nella ricerca?

«Ha già avuto un grande impatto. Quando io facevo ricerca il mio lavoro era perlopiù scrivere righe di codice per moltissime ore al giorno. So per confronti diretti che molto di quel lavoro ormai è delegato all’Ai. E va benissimo che l’Ai scriva codice al posto nostro mentre ci dedichiamo a cose più poetiche. È uno strumento ottimo per velocizzare procedure in cui non c’è bisogno dell’estro».

Non suona però come un cattivo presagio per certi ambiti lavorativi, soprattutto di carattere burocratico?

«È la storia della tecnologia da sempre. È come il telaio, la locomotiva, le trebbiatrici meccaniche e via dicendo. In questo senso possiamo ancora pensare che la tecnologia che sostituisce delle azioni lavorative possa in realtà aumentare il livello complessivo e le capacità di lavoro di tutti. È però una transizione, da accompagnare e gestire. Cerco di non cedere troppo alle fantasie apocalittiche sulla sostituzione del lavoro. È già successo. Forse anche con impatto maggiore».

La letteratura come ci può aiutare?

«Deve tenerci in stretto contatto con il desiderio di cui dicevo all’inizio. Cosa desideriamo davvero sia la nostra vita, la qualità delle nostre relazioni, il nostro rapporto con la speranza… Tutto questo deve guidare ancora. Oggi subiamo molto la tecnologia, non serve l’Ai, bastano i basilari algoritmi dei social. Pensiamo a quanto quel tipo di interazione abbia tolto spazi ad altre forme più sensate, e banalmente alla lettura. Veramente ha reso più degna la vita quotidiana? Chiunque ci pensi in modo onesto, credo, risponderebbe di no. Perché allora non avere degli scatti rispetto a tutto questo, in cui anche la letteratura ci riporta a pensare che siamo i soggetti della nostra vita».

Il suo ultimo lavoro è il podcast “In viaggio non pregare”, a bordo di una missione di soccorso di Emergency nel Mediterraneo.

«Pensiamo alla distanza che c’è tra la le riflessioni sull’Ai e la realtà di gruppi di decine di persone su imbarcazioni di fortuna, in mezzo alla vastità assoluta del Mediterraneo. È un tempo di contrasti difficili da ricomporre.

Dopo aver visto l’Ucraina e Israele, partivo con la nave di Emergency sentendomi preparato. Invece sono stato colto alla sprovvista da qualcosa che pure tutti conosciamo: la realtà effettiva, umana, di ciò che accade a un passo da noi è dirompente dal punto di vista emotivo. È ciò che ho cercato di raccontare nel podcast, perché si possa esserne attraversati al di là delle posizioni politiche. La realtà immediata, umana, è quella che letteratura e racconto possono mostrare. Le singole opinioni magari, poi, seguono».—