L’analisi. Il caso Toti e la ricerca mediatica di una (pseudo)condanna: a prescindere dalle regole
Le speculazioni in politica sono all’ordine del giorno, specie in materia penale. In alcuni contesti hanno fatto anche la fortuna di movimenti che si basavano solo su di una forzata e gratuita indole legalitaria, vedasi Movimento 5 stelle e prima ancora l’Italia dei Valori di Di Pietro; squarciate e/o ridimensionate dalla difficoltà di mantenere la “verginità penale” dei propri esponenti, soccombendo all’ineluttabile editto di Nenni: «Gareggiando a fare i puri troverai sempre uno più puro che ti epura».
Giovanni Toti decide di accedere all’istituto dell’applicazione di pena su richiesta, più volgarmente detto patteggiamento e subito si innesca la mistificazione del diritto processual-penalistico: ha ammesso la colpa. La sinistra e i grillini soprattutto strumentalizzano la scelta dell’ex governatore della Liguria, circostanza che scolpirebbe i fatti di indagine come reali, veri, effettivamente accaduti, conclamando quindi la responsabilità penale dei protagonisti della vicenda. Nulla di più distante dal diritto!
La scelta non comprende un’ammissione di responsabilità né alcuna forma di acquiescenza dei fatti, è un istituto che consente dei vantaggi, la definizione immediata del processo, la riduzione automatica di un terzo della sanzione, pena la perdita di una opportunità, quella di confrontarsi con l’accusa sulle prove e tentare di far valere la proprie ragioni, dimostrando la propria innocenza. Non è una pratica inusuale, Toti e i suoi legali non hanno compiuto un atto abnorme comprovante la colpevolezza, sconfessando la dichiarazione di innocenza proclamata sin dall’esordio di questa indagine, hanno semplicemente deciso di evitare due limiti del processo penale italiano: la sua durata talvolta interminabile per cui il processo stesso diventa una pena; l’imprevedibilità del giudizio.
Su questi profili dovrebbe incentrarsi un dibattito, specialmente da quelle forze che si definiscono progressiste e che invece col torcicollo a convenienza escono palo e corda per condannare il primo avversario di turno cercando di raccattare qualche punto percentuale in più nei sondaggi e magari alle urne con l’occasione delle prossime regionali, specie quelle liguri per l’appunto. Il patteggiamento così come gli altri riti alternativi sono un compromesso tra l’accusa e la parte, c’è una rinuncia reciproca a proprie prerogative e l’imputato che tenta di trovare un accordo sulla pena da patire è consapevole di aver evitato di rimanere impelagato in processo anche per sei – sette anni, se non di più, col rischio che magari il giudice al posto di esercitare il libero convincimento in funzione delle prove assunte assurga al ruolo di giudice etico e applichi il libero arbitrio, interpretando le norme funzionalmente alla propria tesi.
Questo non vuole essere un attacco alla magistratura, sia chiaro, ma una sincera constatazione di quello che accade nelle aule dei tribunali, il relativismo della decisione a seconda del burocrate incaricato di una delle massime funzioni esercitate dallo Stato, l’amministrazione della giustizia. La cartina di tornasole è sempre il caso Palamara, la disfunzione è sempre nella mancata separazione delle carriere e delle funzioni, di fondo l’assenza di una cultura giuridica del popolo, sobillato oggi da questo domani da quell’altro magistrato in aspettativa o politico in carriera, nel disordine tra poteri dello Stato che vive l’Italia almeno da Tangentopoli in poi.
Il Governo Meloni, correttamente, nel voler riformare la giustizia vanta un paio di paradigmi spesso proposti dal sottosegretario Andrea Del Mastro: «Garantisti nel processo, giustizialisti nell’applicazione della pena» e «nessuno tocchi Caino, ma non ci dimentichiamo di Abele». E sarebbe ora che anche una certa stampa eviti di travisare le cose per vendere più copie o fare qualche audience in più, su tutti Travaglio quando da Gramellini con la sua solita sicumera sostiene di non aver mai visto «un innocente che chiede al giudice due anni di reclusione? Una volta gli innocenti chiedevano l’assoluzione non il patteggiamento», perché è proprio questo approccio a svilire tutto.
La ricerca facile di una condanna a prescindere dalle regole, come se queste regole siano state inventate da una congerie di avvocati e imputati e non da un Parlamento eletto dai cittadini con l’intenzione, quanto meno in nuce, di trovare un punto di caduta tra la mole di processi arretrati e l’esigenza di definirli quanto prima ma a determinate condizioni. Talvolta parrebbe che il processo serva ad alcuni di questi giornalisti per alimentare le aspettative di condanna “promesse” con tutte la vivisezione delle indagini preliminari date in pasto all’opinione pubblica, trovando nella sentenza, meglio se di condanna, la riprova che a pensare male non sbagliavano affatto, ad impaginare i titoloni ad effetto e a organizzare quasi una serie a puntate perché il mostro in prima pagina tira sempre, soprattutto se politico, specie se di destra.
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