Un mare di Carta, Trieste racconta la storia della marineria
Prue e fumaioli, scafi neri, mare salato, fari svettanti verso il cielo, nomi di società di navigazione, date di partenza e da un porto europeo e arrivo al di là dell’oceano.
E poi donne eleganti e sofisticate che guardano lontano da un ponte di un piroscafo lanciato verso il mare aperto.
C’è tutto questo nella rassegna che lo storico navale Maurizio Eliseo offre alla visione del pubblico nelle sale del Magazzino delle idee. La mostra realizzata assieme all’Erpac ha per titolo “Un mare di carta” e propone al visitatore centinaia di manifesti, opuscoli, dépliants, brochure bozzetti che ricostruiscono idealmente la storia della marineria che si è fatta impresa. Questa storia oltre che da Maurizio Eliseo è stata scritta nella mostra e nel catalogo che la riassume, da Nicolò Capus e Sergio Vatta che ha seguito in dettaglio tutta l’evoluzione della grafica pubblicitaria legata alla promozione del viaggio per nave tra Ottocento e Novecento.
I manifesti esposti sono realizzati da celebri artisti tra cui svettano i nomi di Marcello Dudovich, Giorgio Settala, Marcello Nizzoli e Gino Boccasile. Le immagini che reclamizzano i viaggi transatlantici di coloro che intendevano cercare fortuna oltre oceano perché in Europa non riusciva a vivere, sono presentati accanto alla pubblicità destinata a un pubblico ricco e soddisfatto che nelle crociere - come scrivono Mario Anzil e Anna Del Bianco nella prefazione istituzionale - cercava l’equivalente del lusso dei grandi hotel.
Nei manifesti del Lloyd Triestino, della Navigazione Generale Italiana, del Lloyd Sabaudo, i grafici hanno privilegiati i “ponti” alti delle navi, gli allestimenti sofisticati e preziosi dei saloni, gli sport come il tennis e la scherma che a bordo era facile praticare, le piscine all’aperto e quelle, come nel caso della Saturnia e della Vulcania, inserite all’interno dello scafo e usufruibili dai passeggeri di prima classe anche quando il clima era poco favorevole.
A ciò avveniva nei “ponti” bassi destinati alle terze classi e agli emigranti, i grafici hanno dedicato poco spazio e pochi manifesti: della presenza di donne uomini e bambini esiste solo un cenno nella sezione trasversale dei piroscafi Giulio Cesare e Duilio. Si notano decine e decine di lettini a castello ammassati gli uni sugli altri. Poca aria, poca luce e anche poca pulizia come si legge in un saggio che descrive la situazione dei dormitori a bordo dei transatlantici destinati al trasporto di emigranti nel periodo che va dagli ultimi decenni dell’Ottocento alla Grande guerra.
«L’insudiciamento dei dormitori è tale che bisogna ogni mattina far uscire tutti sul ponte, allo scoperto». I pavimenti venivano spazzati con segatura mista a disinfettante. Su certi piroscafi il lavaggio con l’ acqua si esegue a mezzanotte mentre gli emigranti dormono, e «ciò è fonte di grande disturbo».
Ma non solo la vita degli emigranti a bordo è stata per così dire poco rispettata e poco descritta nel nostro Paese. Le dimenticanze riguardano anche chi lavorava e lavora nei cantieri e costruiva piroscafi e motonavi. Dimenticato anche gran parte del mondo della navigazione.
«Tra i settori più negletti vi è l’industria marittima italiana. Non esiste in tutta la penisola - scrive Maurizio Eliseo - un museo o un archivio pubblico dedicato a preservare la memoria dei transatlantici italiani, molti dei quali sono entrati nel mito, basti ad esempio pensare al Rex che nel 1933 fu celebrato in tutto il mondo come la nave più veloce mai costruita, tanto che Federico Fellini lo volle protagonista di una delle scene centrali del suo Amarcord».
Negli anni Trenta e negli anni Sessanta - ha spiegato ieri Eliseo nel corso di una breve visita guidata alla mostra - l’Italia gestì una delle più grandi flotte di transatlantici a livello mondiale e fu pioniera nel creare la nave da crociera. Il successo dell’attuale cantieristica italiana in questo settore - leggi Fincantieri leader mondiale – non è un caso. Le radici di questo successo sono ancorate alla storia del nostro Paese.
Sergio Vatta sottolinea al contrario le difficoltà insorte a Trieste negli anni del secondo dopoguerra. «Assistiamo a una progressiva marginalizzazione del versante giuliano, sia del punto di vista portuale, con una drastica riduzione della toccate della flotta di Stato, sia da quello armatoriale e cantieristico. Questo tragico ridimensionamento raggiunge il livello più acuto col piano Cipe del 1966 che decretò la fine delle costruzioni navali nella città di Trieste. A livello delle brochure il Lloyd triestino cercò di resistere ma gli stampati promuovevano soprattutto i collegamenti tra Trieste e l’Australia, una meta lontanissima scelta a malincuore da decine di migliaia di triestini e istriani per ricostruire in pace le proprie esistenze».