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Quelli della retromarcia verde

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Apparentemente, con Ursula von der Leyen in testa, si procede con il Green deal. Ma la situazione, a partire da un mercato dell’auto che boccheggia, impone un bagno di realtà. E tra politici, imprenditori e persino convinti «alfieri» di quella rivoluzione (leggasi Romano Prodi) si moltiplicano distinguo e pentimenti. Meglio tardi che mai.

«Sarà il nostro uomo sulla Luna» diceva nel 2019 Ursula von der Leyen, mentre annunciava il Green deal. È finita come l’Apollo 13. Non è Houston ad avere un problema, ma Bruxelles. O meglio: i sudditi continentali della baronessa teutonica, rieletta alla guida della commissione con l’appoggio di verdi e socialisti. E adesso Ursula paga pegno. Avanti tutta con la furibonda transizione ecologica. Le file degli oppositori, però, s’ingrossano con un agguerrito esercito: quello dei pentiti. Cinque anni fa, tutti s’inginocchiavano davanti all’eco-talebanesimo professato dai Fridays for Future di Greta Thunberg. Adesso, esorbitanti costi e irragionevoli imposizioni indispongono anche chi sprizzava entusiasmo. Politici, imprenditori e consumatori fanno marcia indietro. La metafora s’addice al caso più clamoroso: i veicoli elettrici. Nell’Ue non saranno venduti diesel o benzina dal 2035. Peccato che persino tanti automobilisti si siano già ravveduti. La società di consulenza McKinsey diffonde i risultati di un sondaggio. Quasi tre proprietari di auto elettriche su dieci esecrano la scelta. E negli Stati Uniti la percentuale dei redenti sale al 38 per cento. I motivi del ripensamento sono gli stessi degli sbertucciati profeti di sventura: poche colonnine, percorrenze farlocche, risparmio teorico.

Non a caso, le immatricolazioni languono. Nei primi sette mesi del 2024 le vendite in Europa sono diminuite quasi dell’11 per cento. Lo scetticismo segue quello di governi, stufi di sussidiare a ufo un settore che rischia di distruggere l’industria continentale, visto il predominio cinese. Dopo la Gran Bretagna, anche la Germania, alle prese con un’epocale crisi economica, abolisce gli incentivi. Eppure il cancelliere socialista, Olaf Scholz, è stato uno degli alfieri della rivoluzione verde, visto anche l’appoggio in patria dei Grünen. E le vendite, lo scorso luglio, crollano del 37 per cento. Senza gli aiuti statali, i listini sono inavvicinabili. Così, le case automobilistiche rivedono gli ambiziosi piani di produzione. Akio Toyoda, presidente di Toyota, aveva già capito due anni fa come sarebbe andata a finire: «Ci sono molti modi per scalare la montagna della neutralità climatica. Se le regole vengono scritte in maniera ideologica, allora sono i consumatori, le persone normali, a soffrire maggiormente». Ecco, appunto. Pure all’ex commissario al Mercato interno in odor di riconferma, Thierry Breton, tocca ammettere l’ovvio: «Una quota significativa della popolazione europea non può permettersi di acquistarla».

All’iniziale baldanza si sostituisce una mesta consapevolezza. Perfino l’antesignana Tesla annuncia tagli e esuberi. Negli Stati Uniti la prima a rivedere i piani è General Motors. Abbassa le stime per il 2024: da 300 a 250 mila veicoli a batteria. E ritarda i lanci di alcune vetture. Ford dice addio all’idea di vendere solo elettriche in Europa entro il 2030. Anche il primo produttore in Europa, il gruppo Volkswagen, ridisegna i programmi: un terzo dei 180 miliardi previsti per la nobile causa, sarà invece dirottato sulle ibride, le preferite degli automobilisti. Lo stesso segmento su cui punta Stellantis, alle prese con un clamoroso calo di vendite. E a riprova dei ravvedimenti generali, pure la Repubblica sembra addivenire a più miti consigli. È il giornale degli Elkann, proprietari dell’ex Fiat. Sarà un caso, ovviamente. Ma da quando l’auto elettrica arranca, sia il catastrofismo climatico che le urgenze ecologiche sembrano appassionare poco il quotidiano del progressismo italico.

Del resto, persino l’indiscusso padre del centrosinistra mostra sincero pentimento. Romano Prodi, fondatore dell’Ulivo, adesso sbotta: se non si applica un poco di buon senso, lamenta, la destra finirà per trionfare ovunque. L’ex premier italiano è stato uno dei predecessori di Ursula alla guida della Commissione europea. Dunque, affonda: «Il problema è che ogni politica deve essere applicata in modo appropriato. Ho dedicato tante energie all’ambiente, dal protocollo di Kyoto in poi, ma l’idea di puntare tutto su una sola tecnologia, o decidere che entro pochi anni non si possono più produrre auto a combustione interna, lo trovo assolutamente sbagliato». Con il rischio, già conclamato, di eterogenesi dei fini: il rifiuto delle politiche ambientali, in teoria sacrosante. Specie in Europa: ha deciso di fare da «nave scuola» polemizza Prodi, ma contribuisce solo al «7 per cento dell’inquinamento». E anche Emmanuel Macron, già alfiere degli eco-furibondi, chiede «una pausa legislativa». Il presidente francese, in un lampo di realismo, informa: «Abbiamo già approvato molte norme ambientali superando Usa e Cina. Ora dovremmo implementarle, non apportare nuove modifiche, altrimenti perderemo le nostre industrie». Il pentimento politico più clamoroso si prospetta però negli Stati Uniti. Se alle presidenziali d’autunno venisse rieletto Donald Trump, nulla sarà come prima. Conferma di voler abolire le regole a favore delle elettriche introdotte da Joe Biden, il presidente americano. E addio Green new deal, rinominato «Green new scam», ovvero «truffa ecologista».

«Trivelleremo, baby, trivelleremo. Questo farà immediatamente scendere i prezzi di ogni cosa» promette il candidato repubblicano. «Useremo i soldi risparmiati per ridurre il deficit. Ci siamo indebitati per quasi dieci trilioni di dollari senza motivo. Costruiremo invece ponti e strade, di cui abbiamo bisogno. Non li sprecheremo in maniera stupida perché la Cina possa riderci dietro». Intanto, persino la finanza Usa sembra voler scappare dal green. Gli analisti confermano: tema politicizzato e progetti meno redditizi. Così, i maggiori fondi statunitensi si sfilano dagli investimenti verdi, a partire da JP Morgan e BlackRock. Anche in Italia, dopo anni passati a celebrare fuffeschi intenti, tra i grandi imprenditori cominciano vigorosi distinguo. Marco Tronchetti Provera, vicepresidente esecutivo di Pirelli, deflagra: «Quella che stiamo affrontando in Europa è un’autentica follia. Dei politici ignoranti e ideologizzati stanno creando un danno enorme a tutta l’economia dell’Unione. Ciò che invece bisognerebbe fare è semplice: misuriamo le cose, le guardiamo in controluce e poi agiamo».

Ma pure Confindustria è sulle barricate: «L’Europa ha un problema di competitività. Questa decarbonizzazione ci costerà 1.100 miliardi di euro nei prossimi dieci anni. Sono costi in più per le aziende. Tante saranno messe fuori gioco» dice il presidente, Emanuele Orsini. Rincara la dose il manager dell’auto Francesco Borgomeo, che invoca «strumenti straordinari» per la transizione, chiamando nientemeno che a una protesta pubblica gli imprenditori. Aggiunge Orsini: «Nel programma di Ursula von der Leyen non mi preoccupa solo la ripresa del Green deal, ma anche il rinnovato impegno a tagliare le emissioni del 90 per cento entro il 2040». Addirittura la Corte dei conti europea seppellisce lo strombazzatissimo vincolo generale: «Scarsi segnali indicano che le azioni intraprese saranno sufficienti per raggiungere l’obiettivo» scrivono gli esperti contabili lussemburghesi. Per non parlare dell’ancor più lunare traguardo delle emissioni zero, fissato per il 2050.

Ecco, a proposito. Anche l’ultima conferenza dell’Onu a Dubai ha ingranato decisa retromarcia. Si sperava nel «phase out»: l’eliminazione di petrolio, gas e carbone. S’è arrivati al «transitioning away»: la progressiva fuoriuscita. «Una pugnalata alle spalle» lamenta Greta Thunberg. La 21enne, dopo aver guidato i destini planetari, sembra sparita. Un altro, inequivocabile, segno dei tempi.