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Franco Basaglia: la libertà è terapeutica

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Trieste è stata la capitale della rivoluzione psichiatrica ai tempi di Franco Basaglia. Chi ci vive lo sa bene, a fronte non solo di tutte le opere che sono state pubblicate dallo stesso Basaglia, ma anche da tutti i trattati scritti dopo la sua morte, con una particolare attenzione a quest’anno che segna il centenario della nascita dello psichiatra più discusso d’Europa. Sorge quindi spontanea la domanda: “Perché un altro libro su Basaglia?”.

Se lo chiede proprio l’editore Francesco Foti autore di “Franco Basaglia, la libertà è terapeutica” (People, 155 pagine, euro 15) come incipit nella sua introduzione, dove spiega con una scrittura obiettiva e fluida che «la scommessa è quella di proporvi una lettura di Franco Basaglia che restituisca il radicale cambiamento che le sue idee hanno portato non solo nella pratica clinica, non solo al modo di guardare ai servizi sociosanitari, ma più in generale alla società e a cosa vuol dire “salute”, al rapporto tra istituzioni e individui, tra democrazia e libertà». Il libro verrà presentato oggi a Gorizia nel Parco Basaglia alle 18.30 e a Trieste martedì 24 settembre alle 18 alla libreria Minerva.

Abbiamo quindi la possibilità di addentrarci in una riflessione che scardini le ripetizioni sul tema basagliano e offra invece una prospettiva contemporanea: dall’operato di Basaglia destinato non solo alla rivoluzione degli ospedali psichiatrici, ma anche alla nascita di cooperative sociali, di ideologie che ancora oggi riguardano il diritto di esistere e la cultura dell’accoglienza all’interno della stessa società, l’autore ci dimostra quanto l’approccio basagliano sia urgente da attuare nella nostra realtà in un momento storico che mette nuovamente in discussione le leggi sull’abolizione dei manicomi. «Questa pubblicazione non è dedicata tanto ai triestini – sottolinea Foti - ma soprattutto al resto d’Italia, che non conosce molto la rivoluzione psichiatrica portata da Basaglia a Trieste né le teorie messe in pratica che perdurano ancora oggi non soltanto nell’ambito medico, ma soprattutto nelle ideologie sociali, prese come esempio da molti stati europei».

Ma il desiderio che l’autore si pone soprattutto è che il trattato, nel quale vengono ripresi molti scritti del medico, come “Conferenze brasiliane” e “L’istituzione negata” insieme ad altre preziose testimonianze come quelle di Peppe Dell’Acqua, arrivi ai giovani e possa contribuire ad arricchire la loro prospettiva di accoglienza, nella ricerca assidua dell’ascolto e del cambiamento. L’opera è quella che oggi la critica letteraria definisce un personal essay, poiché per ripassare l’intera vicenda basagliana, l’autore parte da una memoria personale, quella del nonno Tullio Fragiacomo, sindacalista e infermiere dagli anni Cinquanta in poi all’interno dell’ex Ospedale Psichiatrico di San Giovanni, forte sostenitore dell’operato di Basaglia e principale coordinatore del servizio di legatoria all’interno dell’ospedale.

Foti mette insieme in una riflessione ampia e completa più dimensioni del “basagliare”, quella “capacità di mettere i bisogni delle persone prima delle regole”, come specifica Massimo Cirri nella prefazione, partendo dalle confessioni di suo nonno, spesso atroci. «Essere un infermiere in un ospedale psichiatrico a quei tempi – spiega Foti – non richiedeva nessuna preparazione medica, così le persone piombavano in situazioni al limite e le dovevano gestire senza nessuno strumento a disposizione, riducendosi spesso a essere picchiati dagli stessi pazienti e ad essere mal remunerati». A pagare le conseguenze della negligenza medica e istituzionale dei tempi, dunque, non erano solo gli internati. È nei capitoli “La città dei matti” e “La città che cura” che si capisce come solo Trieste «avesse mostrato un’apertura non scontata a un processo di cambiamento radicale e che l’avrebbe investita di una responsabilità senza precedenti in Italia: diventare una comunità terapeutica, una città che cura». La stessa città che trasudava l’urgenza di un cambiamento sociale di fronte anche alle tragedie del Novecento che l’avevano letteralmente dilaniata. Non sono mancate le negazioni da parte di alcune istituzioni e dalla politica dei tempi, ma il processo di deistituzionalizzazione iniziato da Basaglia già a Gorizia riuscì a creare, attraverso il dialogo e l’ascolto, una sincronicità di intenti tra gli internati, un gruppo di psichiatri e di operatori che diventarono i protagonisti nella gestione dell’istituzione psichiatrica.

Il nonno Tullio fu il primo testimone di questo cambiamento, diventando parte del consiglio di amministrazione nella fondazione della Clu, la prima cooperativa lavoratori uniti all’interno della realtà psichiatrica istituita nel 1972; un passo cruciale dal momento che era la cooperativa ad assumersi la responsabilità di «organizzare la forza lavoro, garantire una giusta remunerazione e la tutela tramite assicurazioni sociali, nonché la riabilitazione della persona e il suo inserimento sociale». Una comunità vera e propria dove al centro non vigeva più alcuna forma di potere, ma soltanto il concetto più vasto e concreto di cura, applicato ad ogni aspetto dell’essere umano.