ru24.pro
World News
Сентябрь
2024
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30

Parsi: «L’Unione europea sia una cosa sola o non sopravviverà»

0

«L’Europa può soltanto attrezzarsi per un mondo che va in direzione diversa dalla sua».

Il professore dell’Università Cattolica di Milano Vittorio Emanuele Parsi presente tra i relatori di “L’Europa, la guerra e la pace - Prospettive e ruolo dell’Europa nel disordine globale” a Gorizia nell’ambito degli incontri per il centenario di Units lancia un monito.

Professore, da due anni a questa parte la guerra sembra dettare il ritmo delle relazioni internazionali.

«Siamo di fronte a un fenomeno che non è iniziato con la guerra in Ucraina ma al quale la guerra in Ucraina ha dato fortissime accelerazioni. È un cambiamento qualitativo che ha delle conseguenze concrete, ovvero la progressiva perdita di energia dell’assetto internazionale nato sostanzialmente nel Novecento, dopo la conclusione delle due guerre mondiali e poi con la fine della guerra fredda. Se le inquadriamo in una prospettiva più ampia, quelle esperienze hanno segnato la riorganizzazione e unificazione del mondo all’interno di uno schema interpretativo, che è quello delle democrazie liberali».

La seconda metà Novecento ha visto il mondo diviso.

«Anche durante la guerra fredda, in realtà, nonostante la tensione fra i due blocchi e la risposta alternativa sovietica, il mondo si fondava, in termini economici ma anche di ideazione, su quanto prodotto concettualmente dalle democrazie occidentali».

E oggi che succede?

«Oggi quest’ordine viene sfidato in maniera plateale e non in quadranti periferici rispetto a dove si è generato e costruito, ma al suo centro: l’Europa. Il nostro continente è infatti il centro di questo sistema di ordine e per noi europei è un disastro. Basti pensare alle dichiarazioni di Mario Draghi, che ci sta dicendo che l’Europa non si attrezza rapidamente proprio perché il mondo intorno a lei va in una direzione diversa da quella che essa stessa auspicava, e sulla cui realizzazione è nato il progetto di unificazione».

Che fare quindi?

«Bisogna prepararsi, non soltanto perché altrimenti non riusciremo ad agire con successo in un mondo in cui operano altri attori, né liberali né democratici, ma perché non sopravviveremmo. E alle sfide interne si aggiungono le minacce interne».

Quali sono?

«Tutte quelle legate al successo di movimenti politici, di destra o di sinistra, ma caratterizzati da una forma di rifiuto della realtà, e quindi dall’illusione che si possa, semplicemente desiderandolo, uscire dalla spinta di carattere globalista che invece resta un tratto del nostro tempo, a prescindere da chi esercita la leadership. Sono forze che desiderano andare verso scenari differenti, che vanno dalla riscoperta del nazionalismo statale, dimostratosi fuori scala rispetto alle sfide del presente e del futuro, a una visione bucolica del futuro che, nel declino tecnologico, ecologico, culturale e demografico dell’Europa, si prefigura come una sorta di inverno post-atomico».

Come fa l’Europa a diventare un attore e non soltanto un oggetto di queste dinamiche?

«Diversi elementi si tengono. Uno è l’aspetto organizzativo: per essere un attore devi essere in grado di coalizzare le forze in un punto decisionale che possa essere attivo tempestivamente nelle sfide che si presentano, che al momento sono tutte impreviste anche se non imprevedibili. La differenza sta nel sapere quando un evento si verifica. Bisogna quindi conoscere i fattori in campo, e poi essere attrezzati perché il decisore sia in grado di incidere».

Questo cosa significa?

«Che il processo di unificazione deve andare avanti, pena il crollo del progetto europeo. Se qualcuno pensa che senza unificazione staremmo meglio guardi allo sconcertante scenario dei continenti e dei sub continenti che non hanno attori di portata globale».

Quali i fini di questa Unione rafforzata?

«L’aumento della capacità di innovazione tecnologica, la riduzione della dipendenza energetica, il più possibile andare verso prodotti di sintesi che sostituiscano quelli naturali, processi produttivi che consumano minori quantità di materie prime strategiche. Sul fronte diplomatico, stabilire relazioni solide con altri attori internazionali, che siano pure lontano ma non siano in posizione di sfida verso la nostra posizione nel mondo. Scelte simili comportano anche un aumento della nostra capacità di istruzione, della nostra efficacia sanitaria – poiché va curata la qualità del nostro capitale umano – e la spesa per la difesa. L’Ue è un progetto pacifico al suo interno, e come la Costituzione italiana rifiuta l’uso della forze per risolvere le questioni internazionali. Però non può essere imbelle. Tutto questo richiede un mutamento drastico, radicale e rapido».

L’Italia è pronta?

«Da noi c’è chi pensa che il futuro sia vivere di turismo e di rendita catastale, e sinceramente non conosco un solo paese all’avanguardia che viva di turismo e immobiliare. Se poi si pensa anche che bisogna scegliere questa via perché la produzione industriale inquina, diciamo che avremo difficoltà maggiori degli altri, senza neanche andare a scomodare la mole sconfinata di debito pubblico che la nostra classe politica ha accumulato, complici parti dell’elettorato».

Le crisi hanno conseguenze dirette sui nostri sistemi. A Trieste, ad esempio, il blocco del Mar Rosso da parte degli Houthi impatta sulle attività del porto.

«Quello è un fronte vitale proprio perché l’Italia è un paese di porti. Difendere il diritto internazionale non è una petizione da spiriti belli, vuol dire difendere il commercio, che è fondamentale per noi che importiamo ed esportiamo beni. Difendere la libertà di passaggio significa difendere i posti di lavoro».

Quali prospettive per l’area?

«Abbiamo inseguito l’illusione che i problemi di un quadrante così vasto potessero essere risolti con degli accordi ad alto livello, ignorando questioni più “piccole”, localizzate, ma non per questo meno gravi. Così si è pensato che grazie a un accordo fra i Paesi del Golfo e Israele si potesse soprassedere sulla questione palestinese, sul tema della Repubblica islamica iraniana, o sulla deriva razzista del governo di Tel Aviv. Ecco, non era possibile: abbiamo vissuto un’illusione».

Per l’Europa cosa significa?

«Negli anni “buoni”, ovvero quando le minacce erano meno imminenti, l’Europa ha costruito la sua politica di vicinato su due quadranti: Est e Sud, ex area sovietica e Mediterraneo. L’obiettivo era costituire il cosiddetto “ring of friends”. Il risultato lo vediamo: abbiamo vicini ostili e non riusciamo ad aiutare fino in fondo, invece, i vicini che guardano a noi con speranza e fiducia. Non siamo capaci di aiutare l’Ucraina che si era affidata all’Europa e per questo ha iniziato una crisi, non siamo stati capaci di contenere la Russia che ci ha blandito con il gas a basso costo, non siamo stati capaci di dare un contributo fattivo alla risoluzione di un processo di pace fra israeliani e palestinesi. Non siamo capaci di una politica nel Medio oriente né di una politica africana, al di là dei proclami del Piano Mattei, che non si capisce cosa sia. In Africa abbiamo perso posizioni, a vantaggio economico della Cina e politico-militare della Russia. Se immagini di navigare sempre con il mare piatto come un tavola, quando poi s’alza un’onda sei nei guai».