Stefano Nazzi: «Vi racconto la mia Milano, negli anni ’70 e ’80 c’era vera violenza»
PAVIA. Stefano Nazzi è sicuramente uno dei giornalisti più popolari d’Italia. Le tre tappe milanesi previste a ottobre del suo Indagini live sono sold out da settimane, nonostante la capienza del teatro Arcimboldi sia di 2346 posti. Il suo podcast - dal titolo Indagini e Altre Indagini - è il più ascoltato del genere crime. Ma Stefano Nazzi è anche autore di libri, oltre che giornalista . Mercoledì 11 alle ore 21 sarà al Ticinum Festival di Pavia (cortile del Broletto), ovviamente l’incontro è sold out, ma gli organizzatori invitano gli interessati a recarsi comunque, potrebbero infatti esserci posti liberi. A Pavia presenta il suo ultimo libro, “Canti di guerra - Conflitti, amori, vendette nella Milano degli anni Settanta” (Mondadori, 19 euro).
Nazzi, ha iniziato a fare il giornalista da giovane, ma alla cronaca nera ci è arrivato dopo anni.
«Sì, ho lavorato a Class, poi mi sono occupato di turismo alla Giorgio Mondadori. Ho iniziato a scrivere di cronaca nera quando lavoravo a Gente».
Il primo caso del quale si è occupato?
«Il primo grande fatto è stato Cogne. E devo dire che la responsabilità di Annamaria Franzoni era subito chiara. Ma io ero interessato soprattutto al risvolto mediatico, alla spettacolarizzazione, al Gip di Cogne che si è sposato con una giornalista, al fatto che un caso giudiziario per la prima volta sia diventato uno spettacolo televisivo. Eravamo a pochi mesi dall’11 settembre e la gente seguiva Porta a Porta per quell’infanticidio più che per le Torri gemelle».
Lei ha un podcast popolarissimo, ha raccontato decine di casi giudiziari, decine di “Indagini”. Quale storia l’ha colpita di più?
«Quello delle bestie di Satana, un caso incredibile, senza nessun movente, un continuo auto alimentarsi di un gruppo di ragazzi che hanno finito per ammazzarsi tra di loro».
Veniamo al libro “Canti di guerra”. Al centro ci sono le storie di tre criminali: Renato Vallanzasca, Angelo Epaminonda e Francis Turatello. E poi, sempre protagonista, è la Milano degli anni Settanta e Ottanta. Partiamo da qui, dal luogo.
«Da tempo ci sentiamo dire che la nostra città è fuori controllo, che c’è poca sicurezza e cose simili. Allora mi è venuto in mente di raccontare la Milano di quando ero ragazzo, quando c’erano 160 omicidi l’anno, mentre oggi sono 19. La criminalità uccideva e si uccideva; oggi ha cambiato faccia, fa altro, non ricorre, di solito, alla violenza. Poi volevo raccontare l’atmosfera di una criminalità che non c’è più».
Turatello, Epaminonda e Vallanzasca, solo l’ultimo è ancora vivo. Turatello è stato assassinato in carcere, Epaminonda si è pentito ed è morto nel suo letto. Nel libro, se si può dire, Vallanzasca ci risulta simpatico.
«Sì, Vallanzasca rimane simpatico, se si può dire così di un criminale efferato».
Epaminonda risulta invece un uomo spietato
«Si lo è, anche se l’ha sfangata diventando collaboratore di giustizia. Gli altri due non si sarebbero mai comportati così, non si sarebbero mai pentiti».
Epaminonda quando inizia a parlare le spara grosse, coinvolge anche politici importanti. Ma non viene creduto. Perché?
«Anche Buscetta all’inizio non è stato creduto. Per quanto riguarda Epaminonda, che ricordo si macchiò di 17 omicidi, c’è sempre il dubbio che cercò di indirizzare le indagini in certe direzioni. Qualcuno lo ritiene furbissimo. Era certamente legato anche alla politica, come quando tentò la scalata al casinò di Sanremo».
Epaminonda si pente e la sfanga. Ciò lo rende particolarmente odioso.
«Una volta pentito e protetto, non sappiamo che vita abbia fatto. Di certo non ha fatto i 54 anni di carcere che ha scontato Vallanzasca».
Il “bel Renè” sembra essere molto malato.
«E’ da tempo che non è presente a se stesso, a causa di una malattia degenerativa».
L’ha mai incontrto?
«Una volta, quando godeva della semilibertà. Ritengo fosse un autentico ribelle, che alimentava questo mito grazie a un narcisismo portato all’eccesso. Credo che abbia pagato tutto e pagherà sempre per l’omicidio di due poliziotti a Udine. Sono cose che, in un certo mondo, si pagano».
E Francis Turatello chi era?
«Era il potere fatto a persona, lo incarnava anche fisicamente: imponente, forte. Creò un’impresa criminale, era feroce e disposto a tutto. È stato capace di gestire tutte le bische di Milano, tutta la prostituzione, grazie ad agganci e coperture. Altrimenti non si spiega la lunga latitanza durante la quale era possibile vederlo tranquillamente a Milano».
Tra i quattro assassini, in carcere, di Francis Turatello c’è Vincenzo Andraous, che oggi, a 70 anni, lavora a Pavia alla Casa del Giovane. Ha ricevuto la grazia. A un certo punto del libro si dice che per soldi Andraous avrebbe fatto qualsiasi cosa.
«Sì certo, lo chiamavano il boia della carceri. Uccideva anche per denaro oltre a uccidere chiunque collaborasse. Adesso è tutta un’altra persona, è rispettato, è un poeta».
Che carceri c’erano nei primi anni Ottanta?
«Allora il carcere rifletteva le dinamiche dell’esterno. Ora credo che siano cambiate molte cose. Turatello a Cuneo faceva quello che voleva. Il direttore era nel suo libro paga, e hanno arrestato anche lui».