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Сентябрь
2024

Il mondo prima dei selfie: a Trieste le foto ritratto sul Molo Audace e la nave Colombo

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Rimanevano per ore lungo il molo Audace, esponendo su un piccolo piedistallo i volti di decine di triestini e turisti immortalati nei mesi precedenti. Accanto a loro stava un’imponente fotocamera a banco ottico e camera oscura, mentre un cartello prometteva la «consegna immediata» degli scatti. I fotografi ambulanti sono una specie ormai estinta, eppure fino a non troppo tempo fa vagavano per le strade di ogni città, riscuotendo grande successo con la loro aria raffinata d’oltralpe, muniti di basco, un foulard e, perché no, spesso anche di una pipa.

Sergio de Luyk, appassionato di fotografia e fratello di Mario, storico proprietario del cinema Ariston e tra i fondatori della Cappella Underground, ha estratto dal suo archivio alcune immagini in bianco e nero, che ricostruiscono i caratteri di un’epoca attraverso gli scatti d’allora.

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Gli anni Settanta sono stati, per de Luyk, un apprendistato artistico: apparteneva a un piccolo circolo di cultori di fotografia – vi facevano parte Aldo Fabro e Fulvio Eccardi, per citare dei nomi – che lentamente prendeva consapevolezza delle potenzialità di ciò che tenevano fra le mani. «Eurjapan, il negozio di fotografia di Famulari e Kisvarday più attrezzato del tempo – racconta de Luyk – era il nostro centro di gravità, Nikon il nostro mito».

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È in questo contesto che i «selfie analogici» facevano proseliti in giro per il mondo, inconsapevoli antesignani di quelli contemporanei. Dicembre 1970. Siamo sul molo Audace e i soggetti non potrebbero essere calati meglio nella parte: si vede un fotografo, intabarrato nel suo cappotto, prima intento a parlare con un’altra persona tenendo il giornale in mano, poi concentrato sulla sua macchina in attesa di ammirare i frutti del suo lavoro. Superfluo indulgere nel fascino di tutta la scena, talmente singolare agli occhi di oggi da sembrare quasi costruita ad arte, o estrapolata da un film.

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Dietro al fotografo, peraltro, si intravede la Cristoforo Colombo (gemella dell’Andrea Doria), la nave deputata alla tratta Trieste-New York. Ecco un altro simbolo dell’epoca: «La volevo fotografare – spiega de Luyk – per documentare in che condizione arrivava a Trieste quel magnifico transatlantico dopo una stagione di traversate invernali dell’Oceano Atlantico». Durante le feste natalizie la nave esponeva sulla ciminiera una stella cometa luminosa e Sergio faceva a gara con Aldo Fabro per vedere chi dei due riusciva a ottenere dalla sua macchina l’immagine più nitida.

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Ma torniamo ai «selfie analogici». Come funzionavano? I ritratti chiesti dai passanti venivano portati a termine in pochi minuti, ottenendo il positivo dell’immagine – cioè bilanciata in termini di luce e di ombre – fotografando a sua volta l’originale in negativo. La fotografia veniva consegnata in mano «ancora umida», come ricorda de Luyk, rispettando così la promessa scolpita sul cartello. Un rituale al quale partecipavano centinaia di persone, conservando i “selfie” nel portafoglio o sul comodino, quali ricordi di un viaggio o di un semplice pomeriggio trascorso in compagnia di amici.

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Il confronto con gli odierni “selfie”, che in termini di immediatezza dello scatto non lasciano alcuno scampo al passato, sollecita inevitabilmente una serie di considerazioni. La prima ha a che vedere proprio con il ritmo: benché ambissero all’immediatezza, i selfie analogici erano testimoni di un «tempo lento», come spiega de Luyk, in cui le procedure fotografiche rispettavano una scansione precisa e inalienabile, lontanissima dalle frequenze del mondo digitale.

Lentezza da cui discende il carattere «materiale» delle immagini, che secondo de Luyk ne era una componente fondamentale: perché la possibilità di toccare con mano il proprio ritratto garantiva un «valore simbolico ed emotivo», legato «all’attimo fuggente e irripetibile di quell’unico scatto». Prendere in mano una fotografia significava, insomma, prendere in mano una storia: un’esperienza possibile anche su uno smartphone, ma con una magia evidentemente diversa.

Se alla lentezza dei selfie analogici si contrappone la velocità di quelli digitali, la perdita del valore simbolico delle immagini porta infatti con sé, secondo de Luyk, una conseguenza ancora più grave e sottostimata: essa sancisce la fine dell’intimità delle fotografie che, un tempo, «rimanevano personali e uniche», al contrario di ciò che accade ora, quando vengono «condivise in milioni di riproduzioni su Instagram».

Certo, la tecnologia ha consentito negli ultimi anni un’innovazione delle tecniche fotografiche enorme, in termini di precisione, di nitidezza e via dicendo. Eppure, guardando le immagini degli anni Settanta sul molo Audace, viene da chiedersi se davvero non si sia perso qualcosa di essenziale. —

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