Bassetto: «La chirurgia plastica torna a curare i feriti delle guerre»
Nata negli anni Cinquanta per curare i feriti del secondo conflitto mondiale, la Chirurgia plastica di Padova torna oggi a occuparsi di ferite di guerra. Un ricorso storico che lega le atrocità di cui sono capaci gli uomini ai piccoli grandi miracoli che altri uomini sono in grado di fare.
Chi ferisce e deturpa e chi cura e ripara. L’Unità di Chirurgia plastica e ricostruttiva dell’Azienda Ospedale-Università di Padova è oggi diretta dal professor Franco Bassetto. E da due anni, prima con lo scoppio del conflitto in Ucraina e poi con l’attacco di Israele in Palestina, la cura delle ferite di guerra è tornata nell’agenda del reparto. Sono già una decina i civili ucraini curati, in particolare donne e bambini feriti da schegge di bombe e dai crolli delle loro abitazioni. E nei giorni scorsi sono arrivate le prime due bambine da Gaza, con ferite da ustioni.
Professor Bassetto, quello che state facendo oggi con i feriti ucraini e palestinesi riporta la Chirurgia plastica padovana alle sue origini.
«Il nostro reparto è nato negli anni Cinquanta: all’epoca il professor Giovanni Dogo aveva una formazione come dermatologo. Si recò a Londra e lì negli ospedali ebbe a che fare con i mutilati della Seconda Guerra Mondiale. Una volta rientrato a Padova creò la prima banca di tessuti al mondo nella quale conservava la cute dei cadaveri che veniva utilizzata per coprire le ustioni. Negli anni seguenti attirò l’interesse dell’esercito americano, allora impegnato nella guerra del Vietnam. Il professor Dogo suggerì agli Americani di coprire le ferite da ustione dei soldati con la cute presa da cadavere: è una pelle che va sicuramente incontro a rigetto ma prima, in una fase tra i 15 e i 20 giorni, ha uno pseudo attecchimento che permette di stabilizzare la ferita. Il tempo necessario, quindi, per inviare i soldati a Bethesda dove poi venivano curati. Qui a Padova si sviluppò una chirurgia delle ustioni e un reparto famosi nel mondo».
E poi com’è evoluta questa specialità?
«Il successore del professor Dogo, Francesco Mazzoleni, apportò una rivoluzione in questa attività introducendo la chirurgia dei lembi, una chirurgia ricostruttiva sia sul piano morfologico che funzionale che è quella oggi ancora utilizzata in tutti gli ambiti della chirurgia plastica, sia negli esiti oncologici o traumatici».
Quindi ha preso lei il testimone dal professor Mazzoleni. E in quale direzione sta andando la Chirurgia plastica oggi?
«Oggi il chirurgo plastico viene chiamato dopo i più svariati interventi chirurgici dove ci sia necessità di ricostruire: dopo operazioni in ambito oncologico, o per fratture quando operiamo insieme ai colleghi ortopedici. Ci sono stati sviluppi di chirurgia plastica ricostruttiva post bariatrica per esempio. La grande sfida poi è quella della Chirurgia rigenerativa nella quale invece di correggere i tessuti cicatriziali si portano nelle aree interessate tessuto adiposo e cellule staminali con caratteristiche quasi embrionali che riescono a evolvere con le medesime caratteristiche anatomiche».
E di nuovo la chirurgia plastica per le ferite di guerra.
«Non mi sarei mai aspettato di avere a che fare con questo tipo di attività, nei termini in cui la stiamo affrontando in questo periodo. Abbiamo sempre accolto qualche paziente di Paesi in via di sviluppo, grazie all’impegno della Regione Veneto che accoglie queste situazioni di bisogno, curando anche ferite di guerra. Ma questi pazienti arrivavano da un altro mondo in un certo senso. Ora la guerra è in Europa. Anni fa, mentre mi occupavo di ricerca sulla pressione negativa che viene utilizzata in caso di ulcere o fratture esposte per preparare il paziente all’intervento chirurgico, negli Stati Uniti mi presentarono una macchina che permetteva di trattare contemporaneamente con pressione negativa sei pazienti. Loro avevano il conflitto in Afghanistan e In Iraq, sapevano bene cosa farne, ma per me era assurdo immaginarne un utilizzo così esteso. Mai mi sarei aspettato che uno scenario simile diventasse invece attuale in Europa».
Come siete organizzati per seguire i feriti ucraini e palestinesi?
«Siamo stati coinvolti in due progetti, uno per gli amputati di Kiev - si stima siano almeno 220 mila ad oggi - e uno rivolto ai bambini di Gaza».
Che tipo di ferite trattate?
«Nel primo caso principalmente le amputazioni: quando vengono fatte al fronte, in modo sommario che definiamo “pelle e osso” non permettono poi di indossare una protesi. Noi abbiamo ideato il moncone intelligente sviluppando con gli ingegneri dell’Università di Padova le protesi bioniche: il moncone viene collegato alla protesi tramite dei lembi innervati sui muscoli in modo che “parli” con la protesi. È un progetto - quello della mano bionica padovana - che ancora si sta sviluppando e che può creare protesi sensibili, capaci di una vasta gamma di movimenti “naturali”. Poi ci sono le fratture che vengono ricomposte dall’ortopedico ma che necessitano anche di riparare i tessuti necrotizzati con i lembi, in questo caso si parla di ortoplastica. Per le ferite agli arti superiori con il professor Cesare Tiengo abbiamo un’altissima specializzazione nella ricostruzione morfofunzionale della mano. Ci sono poi le ustioni, in particolare quelle al volto che sviluppano cheloidi, cicatrici deformanti. Anche in questo caso si interviene per ripristinare morfologia e funzionalità, per esempio ricostruendo le palpebre o i contorni della bocca».
Una parte della Chirurgia plastica è anche quella prettamente estetica: come cambia l’approccio di fronte a un intervento estetico e uno che cura una ferita?
«Dal punto di vista professionale non c’è differenza, tecniche e principi con cui si agisce sono gli stessi. Diverso è certamente l’impatto emotivo che però rimane fuori dalla sala operatoria».