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Сентябрь
2024

Gaza e giornalismo, Stella Assange al Fatto: “Oggi la repressione è forte e pericolosa”. Il dibattito con Di Battista, Lerner e Paesani

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“Se le guerre possono essere cominciate con le bugie, la verità può fermarle”, diceva Julian Assange. Nel conflitto scatenato a Gaza dal massacro del 7 ottobre e in corso ormai da 11 mesi, la prospettiva di una fine della guerra si allontana, ma anche la verità ha difficoltà a emergere in un conflitto dove i giornalisti indipendenti hanno scarso accesso e dove le uniche informazioni che si riescono ad avere vengono dai civili palestinesi che raccontano cosa accade con i loro smartphone o dagli operatori umanitari internazionali.

Di questo si è parlato al panel “Israele-Gaza: come uscire dal mattatoio”, con Stella Morris Assange, moglie di Julian Assange e capofila della battaglia per la sua liberazione (in collegamento dall’Australia), Alessandro Di Battista, Gad Lerner, giornalista del Fatto conduttore e saggista e Martina Paesani infermiera di MSF e del servizio sanitario nazionale. L’affollatissimo dibattito era moderato dalla vicedirettrice del Fatto Quotidiano Maddalena Oliva. “Nel conflitto a Gaza si sente la mancanza di un lavoro investigativo come quello fatto da Wikileaks a proposito delle guerre in Afghanistan e in Iraq”, ha detto Oliva.

La risposta di Stella Assange è che dal 2010, anno dell’uscita del notissimo video Collateral murder su Wikileaks, oggi è aumentata, non diminuita la possibilità di svelare le atrocità della guerra, e parallelamente l’ipocrisia di molte democrazie occidentali che dichiarano o sostengono i conflitti propagandando l’idea che siano necessari e “giusti”. E questo, nonostante il lungo calvario subito da Julian Assange, liberato solo quest’anno dal procedimento penale avviato dagli Stati Uniti per il suo lavoro di giornalista, dopo un accordo di patteggiamento.

“Credo che una delle molte cose che stiamo imparando a Gaza è il ruolo che tante potenze occidentali svolgono, non solo perché forniscono armi ma anche perché aiutano chi commette queste atrocità a compierle. è un po’ come è accaduto con Wikileaks. Ci sono prove di crimini di guerra e insabbiamenti, gli Usa e la Germania sono i principali fornitori di armi a Israele e il Regno Unito fornisce un supporto di intelligence essenziale dalla base a Cipro”, ha detto Stella Assange. A questo va aggiunta una nota amara, però: “Oggi i tentativi di censurare quello che avviene e chi tenta di svelare la verità, e di reprimere chi protesta sono diventati più forti e pericolosi. Prendiamo i manifestanti pro-palestina. Nel Regno Unito, il Paese che conosco meglio, una volta chi protestava veniva accusato di danneggiamento, oggi vengono accusati di terrorismo. E con loro, ed è grave, anche i giornalisti indipendenti”.

Il conflitto di Gaza sta dimostrando che gli interessi delle potenze occidentali, ha continuato la moglie del fondatore di Wikileaks, confliggono con i principi di difesa dei diritti umani. Ma oggi, le tecnologie che consentono anche ai palestinesi di diffondere in autonomia immagini di quello che avviene nella Striscia nonostante ai giornalisti indipendenti non sia consentito l’accesso da Israele. “E questo rende più difficile dimenticare il massacro in corso”, ha concluso Stella Assange.

Un contributo nel racconto diretto della gravità di quello che sta accadendo nella Striscia lo ha offerto Martina Paesani, infermiera del servizio sanitario nazionale e di Medici Senza Frontiere, rientrata da pochi mesi dalla Striscia. “La guerra di Gaza non ha altri paragoni nel nostro immaginario – ha detto Paesani – Ho vissuto altre guerre in Siria e Yemen, ma l’impatto è indescrivibile, non è paragonabile”.

Paesani racconta del “ronzio dei droni che ti accompagna ogni giorno” e della persistente condizione di insicurezza in cui ci si sente nella Striscia: “Dire che a Gaza nessun luogo è sicuro, non è uno slogan, è la realtà”, ha affermato l’operatrice sanitaria. Che ha ricordato che l’insicurezza, per la popolazione, non viene solo dalle bombe israeliane, ma anche dalla grave mancanza di cure, medicine e aiuti umanitari nella Striscia. Carenze che hanno provocato anche focolai di poliomelite. “Ricordo che per essere immunizzati servono cinque somministrazioni, per ora è stato trovato l’accordo solo per la prima”, ha detto Paeseani.

“Non è una guerra è un massacro compiuto da uno degli eserciti più importanti del mondo supportato da quello più potente al mondo”, ha affermato Alessandro Di Battista. L’attivista e reporter ha esposto sul palco la sua nota posizione radicalmente filopalestinese “Israele è il peggior stato terrorista al mondo, un osceno stato terrorista che pratica la pulizia etnica per arrivare all’obiettivo dell’espulsione dei palestinesi dalla Cisgiordania. E ora in West Bank stanno portando avanti lo stesso tipo di operazione che hanno cominciato a Gaza”. Contestato da alcuni presenti, Di Battista ha affermato anche che il 7 ottobre è stato un pretesto per Israele per portare avanti un progetto di annessione dei Territori palestinesi avviato già da molti anni. “Sono decenni che i palestinesi sono sotto occupazione, sotto apartheid e dove viene praticata la pulizia etnica”.

L’intervento finale è spettato a Gad Lerner, che ha espresso una posizione non meno indignata per il massacro e le sofferenze imposte ai civili a Gaza, ma non per questo meno attenta alle responsabilità di Hamas e dell’islamismo radicale nel conflitto. “Questa strage prosegue da 11 mesi e rappresenta il paradosso per cui tanto più massacra la popolazione che ha come obiettivo, tanto più indebolisce chi perpetra il massacro. La sicurezza di Israele oggi è ancora più precaria e vulnerabile di quanto fosse prima”.

“Come possiamo mettere a frutto questo moto di indignazione che si propaga per il mondo, nonostante la pessima informazione che spesso viene fatta sul conflitto?”, si è chiesto Lerner. Ci sono due strade, riconosce il giornalista firma del Fatto. Una, che non incoraggia, è sostenere il progetto di resistenza armata islamista di Hamas. “L’altro è il cessate il fuoco subito”, ha chiarito Lerner, “ed è l’ipotesi che risponde a un imperativo molto concreto di chi è nato in quella terra e ha famiglia laggiù, da una parte o dall’altra. Ovvero la constatazione del fatto che in quel fazzoletto di terra insanguinato vivono circa 7 milioni di ebrei e 7 milioni di palestinesi. O trasformeranno il Paese in un cimitero oppure dovranno convivere prima o poi. E se lavoriamo nella direzione della convivenza, la nostra giusta indignazione sarà ben indirizzata”.

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