Gianni Amelio e il set in Friuli: un omaggio a Monicelli che girò a Venzone
È il pensiero e non l’azione a dominare “Campo di battaglia” di Gianni Amelio — in concorso alla Mostra del cinema — una peculiarità poco usuale delle pellicole di genere che ci trascinano solitamente nel combattimento più cruento.
«Mi disturba quando la guerra è spettacolo: rimuove il senso della tragicità e dell’indignazione», spiega il cineasta calabrese settantanovenne Leone d’oro per “Così ridevano” (1998).
Domenica 8 settembre, accompagnato dal protagonista Alessandro Borghi, il regista sarà ospite al Kinemax di Gorizia (alle 16), al Visionario di Udine (dopo la proiezione delle 16.20), infine, a Cinemazero di Pordenone alle 19.30.
Un ritorno in terra friulana di Amelio e di Borghi un anno dopo aver girato a Udine, Venzone, Tolmezzo, Villa Manin, Osoppo, Gorizia, Cormòns, con il sostegno della Film Commission Fvg e della Promoturismo.
Maestro, il profondo Nord Est come sfondo della sua opera, che data 1918 verso la fine della Prima guerra, è stata una scelta più storica o sentimentale?
«Il sentimento ha prevalso, nonostante in quei luoghi il combattimento fu impetuoso e drammatico. Dico questo perché l’omaggio al Mario Monicelli de “La grande guerra” è sempre stato in evidenza nel mio cuore e la scena del passaggio dei camion della truppa italiana avviene nella stessa piazzetta di una sequenza del 1959 con un Vittorio Gassman dalla parlata milanese da commedia, quasi comica. La mia, invece, ha un senso più drammatico: un militare sardo avverte la popolazione dell’arrivo degli austriaci, ma nessuno lo capirà. Allora pochi parlavano l’italiano, tutti usavano i loro dialetti a volte incomprensibili. Però i soldati s’intendevano lo stesso».
Teme un intensificarsi dei conflitti mondiali in Russia e a Gaza?
«L’umanità non ha ancora trovato il modo di dire basta. Il ripetersi all’infinito di tragedie che cancellano vite innocenti a causa del potere di pochi è un flagello inarrestabile. L’odio non nasce dalla democrazia, bensì dalla bramosia d’espansione delle dittature. Bisognerebbe armarsi per altri scontri, come quelli per la scienza, battersi per cancellare le epidemie, le malattie, allora sì che la lotta varrebbe la pena di essere combattuta».
Il vero “campo di battaglia” del suo film è una corsia d’ospedale dove due medici cercano di rimediare ai danni del fronte e della pandemia con idee contrapposte. È un osservatorio nuovo rispetto alle solite carneficine da trincea.
«La follia di quel funesto 15-18 è racchiusa in una decisione: mandare al macello giovani inesperti senza addestramento. Il regio esercito dava loro un fucile per sparare al nemico. Fine. Non c’erano altre spiegazioni. L’ordine ai dottori era rimettere quanto prima in piedi i feriti affinché riuscissero a tenere in mano un’arma. Molti di loro si procuravano malattie pur di non andare a crepare e tornarsene a casa. La medicina, in quel frangente, non curava, no, ti sistemava in qualche modo affinché tu potessi morire altrove trafitto da un proiettile ostile».
Una frase emerge da un dialogo fra i due camici bianchi: “Se questi continuano a farla franca con i loro inganni, saranno i furbi a governare il Paese in futuro, mentre i migliori finiranno sepolti”.
«Un vizio che non ha solo una matrice italiana, riguarda qualunque società. Il più debole, alla fine, è schiacciato dal potente. Ecco perché in tutti i miei film io sto dalla parte degli ultimi. I vincitori, ho sempre avuto questa convinzione, non hanno mai a che fare con il bene dell’umanità. Metto sul grande schermo chi le ingiustizie le subisce»,
Con “Lamerica”, 1994 e con “Così ridevano”, 1998, lei s’interessò all’immigrazione con qualche decennio d’anticipo su un oggi ormai ingovernabile.
«Purtroppo il campo di battaglia adesso è il mare ed è uno scenario di una crudeltà assoluta. Nessun summit è stato in grado di risolvere il destino di questa povera gente. Un tempo, almeno, qualcuno si offriva per aiutarli, adesso l’atteggiamento comune è quello di voltarsi dall’altra parte. Passi in avanti rispetto ad allora?, lei mi chiede. Semmai qualcuno di troppo indietro».