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Perché Kamala Harris è tutt’altro che la «già Presidente»

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I sondaggi corrono su un filo sottilissimo e non è detto che gli anti-trumpiani votino per la vice di Joe Biden, detestata (anche) per la sua incoerenza. La partita è ancora aperta.

Un’ossessiva vulgata mediatica non fa che ripetere, ormai da oltre un mese, che Kamala Harris avrebbe già quasi la vittoria in tasca. In particolare, la vicepresidente sarebbe una candidata formidabile, essendosi rivelata capace di riaprire un’elezione che, a metà luglio, sembrava ormai decisa a favore di Donald Trump. La Harris, si dice, sarebbe riuscita a compattare i democratici, accendendo finalmente il loro entusiasmo. Ma siamo veramente sicuri che le cose stiano così? C’è da dubitarne. Ovviamente non si può negare che la candidata dem abbia guadagnato terreno nei sondaggi. Ed è altrettanto innegabile la sua straordinaria abilità nella raccolta fondi: in poche settimane, è infatti riuscita a rastrellare in tutto circa 540 milioni di dollari. Tuttavia questo è soltanto un aspetto della questione. È necessario osservare l’attuale corsa presidenziale anche da un’altra angolazione, cercando di sfatare alcuni comodi luoghi comuni. Innanzitutto, la Harris non ha riaperto la partita elettorale. Pur avendo un riscontro migliore di Joe Biden nei sondaggi, tale partita non è chiusa oggi così come non lo era quando a correre risultava l’attuale inquilino della Casa Bianca. Prendiamo i dati a livello nazionale. Secondo la media sondaggistica di Real Clear Politics, tra metà marzo e fine giugno Trump era, sì, stabilmente in vantaggio sul presidente americano ma di circa un punto percentuale. Dopo il disastroso dibattito televisivo del 27 giugno, Biden è finito per quattro settimane sotto attacco dall’establishment del suo stesso partito, che premeva affinché abbandonasse la corsa.

Ebbene, in quelle quattro settimane, il vantaggio del candidato repubblicano è, sì, salito, ma non ha mai superato il 3,5 per cento. La discesa in campo della vice di Biden ha migliorato la situazione per i dem, è vero. Tuttavia, al 22 agosto, Real Clear Politics le attribuiva, sempre a livello nazionale, un vantaggio dell’1,5 per cento. Questo vuol dire che, sia quando era avanti Trump sia quando è passata in testa la Harris, nessuno dei due contendenti ha mai raggiunto un vantaggio del 4 per cento. Se ne evince che la partita è sempre de facto stata aperta. In secondo luogo, va tenuto presente che i sondaggi sono un’istantanea. Per essere interpretati proficuamente, vanno letti in una prospettiva storica. E qui troviamo qualche sorpresa. Sempre secondo la media di Real Clear Politics, è vero che il mese scorso la Harris in Michigan e Wisconsin era davanti a Trump: tuttavia si trattava di un vantaggio inferiore a quello detenuto in loco da Biden e Hillary Clinton rispettivamente ad agosto 2020 e ad agosto 2016. Addirittura, al 19 agosto scorso, il tycoon era lievemente in vantaggio in Pennsylvania, mentre alle ultime due elezioni, sempre in agosto, la Clinton e Biden erano decisamente avanti a lui in questo Stato. Ma non è tutto. Il presidente del Super Pac (Comitato per l’azione politica) della Harris, Chauncey McLean, ha recentemente ammesso che i sondaggi riservati sarebbero, per lei, «molto meno rosei» di quelli pubblici. D’altronde, inviti a non eccedere con l’ottimismo sono arrivati ai dem anche da Barack Obama e Bill Clinton nel corso della recente Convention di Chicago.

Il quadro delle rilevazioni è dunque più complesso di come spesso viene tratteggiato. D’altronde, la candidata alla Casa Bianca deve fare i conti con non pochi problemi: a partire dalle fratture interne all’Asinello. Nonostante lo sfoggio di unità mostrato nelle scorse settimane, le divisioni intestine permangono. Sotto questo aspetto, il nodo principale è rappresentato dall’estrema sinistra filopalestinese. La Harris ha fatto di tutto per accattivarsi le sue simpatie, dopo che, durante le primarie, i pro Palestina avevano avviato una campagna di boicottaggio ai danni della ricandidatura di Biden, tacciato di essere troppo favorevole a Israele. A luglio, la vicepresidente ha evitato di partecipare al discorso tenuto al Congresso americano da Benjamin Netanyahu. Inoltre, ha preferito scegliere come suo vice Tim Walz, anziché il governatore della Pennsylvania, Josh Shapiro, che i «pro Pal» vedevano come il fumo negli occhi in quanto fortemente filo-israeliano. Eppure, nonostante queste concessioni, i filopalestinesi sono rimasti sul piede di guerra. Hanno contestato la Harris durante eventi elettorali in Michigan e Arizona, non rinunciando a tenere manifestazioni di protesta a Chicago durante la convention democratica. Per la vicepresidente, si tratta di un grattacapo significativo. Nonostante siano una minoranza, i pro Pal rischiano di rivelarsi determinanti in alcuni Stati chiave, come Michigan e Georgia. Stati, in cui la Harris non può permettersi delle defezioni a sinistra il prossimo novembre. Non va infatti trascurato che, nel 2016, Hillary Clinton perse le elezioni proprio perché, in Michigan, Wisconsin e Pennsylvania poche migliaia di elettori di Bernie Sanders decisero di votare per Trump.

Altro problema per la vicepresidente è rappresentato proprio dalla scelta del suo vice, Tim Walz. Se avesse optato per Shapiro, la Harris avrebbe avuto quasi certamente in dote uno Stato cruciale come la Pennsylvania. Inoltre, essendo Shapiro un centrista, avrebbe disinnescato le critiche dei repubblicani, che la dipingono come un’estremista di sinistra. Senza contare che il governatore della Pennsylvania sarebbe stata una carta efficace per attrarre il voto dei colletti blu della Rust Belt. Significativamente progressista, Walz, invece, non solo ha spostato il ticket dem ulteriormente a sinistra ma, come abbiamo visto, la sua nomina non ha neanche placato i malumori dei filopalestinesi. Inoltre, per quanto spesso si ripeta il contrario, è tutto da dimostrare che sarà capace di aiutare l’attuale vicepresidente nel voto operaio: quando fu rieletto governatore del Minnesota nel 2022, il diretto interessato non ottenne infatti una particolare spinta dai «colletti blu». Non solo. Le posizioni radicali sull’aborto, espresse dall’attuale ticket presidenziale dem, rischiano di alienare il voto cattolico. Il che è un problema: ricordiamo infatti che, molto spesso, chi in America riesce a conquistare la maggioranza dei cattolici è poi in grado di arrivare alla Casa Bianca.

E ancora: un’incognita per la Harris è rappresentata dagli ambientalisti. Quattro anni fa, furono loro infatti uno dei pilastri della coalizione elettorale che portò Biden alla Casa Bianca. Poi qualcosa si è incrinato. Nel 2021, l’attuale amministrazione ha chiesto all’Opec di aumentare la produzione di petrolio, mentre a marzo 2023 ha dato l’ok a un mega piano di trivellazioni in Alaska. In più, alcune settimane fa, la campagna della Harris ha reso noto che la candidata dem non è più favorevole al divieto del fracking: controverso metodo di estrazione del gas molto usato in Pennsylvania. E pensare che quando si candidò alla nomination dem nel 2019, la lotta contro questa pratica era parte integrante della sua battaglia green. La domanda allora è ovvia: siamo sicuri che gli ecologisti le perdoneranno una simile svolta?

Questo ci porta poi a un problema più generale. L’amministrazione Biden è piuttosto impopolare su varie questioni, dall’inflazione all’immigrazione clandestina. La Harris avrebbe quindi bisogno di smarcarsi il più possibile dall’attuale inquilino della Casa Bianca (non a caso, durante il discorso alla convention, lo ha citato appena tre volte). Tuttavia questo obiettivo per lei è assai difficile da conseguire, visto che la candidata dem è anche vicepresidente. Si profila dunque all’orizzonte lo spettro di Hubert Humphrey: il candidato dem del 1968 che, anche lui vicepresidente in carica, fu azzoppato dall’impopolarità di Lyndon Johnson, che sedeva all’epoca nello Studio ovale. Sia chiaro: non si sta sostenendo che la Harris non abbia speranze di vincere. Trump deve infatti a sua volta fronteggiare vari problemi: deve, cioè, affrettarsi a ricalibrare la sua strategia elettorale, tenendo conto dell’uscita di scena di Biden. Inoltre, ha urgente necessità di recuperare terreno in North Carolina. In ogni caso, la strada per la vicepresidente è tutt’atro che spianata. Innanzitutto bisognerà capire quale sarà l’impatto del ritiro di Robert Kennedy jr e il suo appoggio a Trump. In secondo luogo, nell’immediato, l’andamento dei consensi potrebbe essere di nuovo stravolto da due eventi: il dibattito televisivo tra Trump e la Harris, oltre all’attesa sentenza relativa alla condanna subita dal primo il maggio scorso.