Antoine Émaz, un “lirico contrariato” (traduzione di Jean-Charles Vegliante)
Quasi come un’insistenza, uno scavo senza tregua, un affondo mite e crudele – mai malvagio però – in un terreno che potrebbe ricordare al lettore italiano, se comparazioni simili hanno un senso, un certo versante ombroso della poesia più “nera” e “netta” di Mario Benedetti. Con bagliori smorzati, lividi, alla Ivano Ferrari, quello di Macello per intenderci. A volte, la maliosa tentazione del fango, o belletta negra dantescamente, ché «la notte vera davanti è peggio / non ci sono più nemmeno parole» (Erre, ed. Tarabuste, 2022 postuma). Eppure, «uno potrebbe dirsi / che non tutto è perduto / anche quando non rimane quasi niente / sulla punta delle dita / del tempo che fila via» (id.), fino alla fine di una vita presto troncata in piena creazione: Antoine Émaz, Antoine Petit all’anagrafe (1955-2019) ha riposto nel lavoro poetico la fiducia ultima malgré tout in quella “social catena” che custodiva un’energia positiva, il fuoco del verbo lirico che fu di Leopardi. Seppure letterato, e finissimo critico letterario, Émaz si è sempre rivendicato erede del nonno materno, falegname, attento – diceva – a ben piallare le sue poche scelte parole.
J.-C.V.
***
Intorno
I
niente risale
di sotto la terra
verso l’occhio
suolo chiuso
come senza storia
eppure
non è lontano
l’odore delle bestie
__
ogni giorno
intorno latra
nell’aria netta
ed è il rumore il sangue
ancora
fuori
sbanda sotto l’occhio
.///.
Muta. Si sente bene il suo astio lungo, i suoi ritorni di furia che non finisce, a tal punto che non si vedono più gli alberi, attraverso il rumore. Si regge contro, ci si innalza o attende, non si parte.
Con poca illusione si mettono in fila le parole: rimane l’ostinazione, seppur saputa vana, che faranno alla fine come un suolo all’incontrario o a forza, un cielo senza rabbia.
.///.
si ha pure a mente chi se ne va senza parlare si disfa e si mischia coi molti già taciuti nel soffio e nel suolo
così
dall’altra parte
pende un silenzio popolato di teste senza visi
e il tempo dentro raggiunge
m’aria crivellata
fuori
.///.
già
di nuovo ciò si sposta
senza cambiare
ecco un altro mattino
tremendamente presto
consuma
rimangono le teste mute
i morti
e le bestie
.///.
Davanti s’è staccato dall’occhio.
Si è mossi, non si è mosso nulla: non c’è più.
Bisognerebbe ritrovare il riquadro d’erba per poterci camminare.
Ma è come partito e c’è soltanto qualcosa verde più a lungo che dura.
II
gli occhi sono stancati
non guardano più
vedono
.///.
non si riposa
immagini
visi visti nella loro paura
e residui già
figure di polvere
tutto s’allontana dall’occhio
nell’occhio
s’infittisce il mucchio
ecco com’è
un suolo di cocci
di ossicini
la mano fruga
una fuga d’immagini
e solleva
una melma
allora non si dorme
non si procede più
si resta coi relitti
una lingua divenuta sabbia
e ciò che resta pure
dei corpi
intorno diventa davvero
eguale
nel troppo
(da: Entre, Paris, Deyrolle, 1995)
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