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Август
2024

Gli agenti penitenziari ridotti a sorveglianti: così le carceri diventano “università del crimine”

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Nel cuore del sistema carcerario italiano si consuma quotidianamente un paradosso che mina le fondamenta stesse della nostra giustizia. La Polizia Penitenziaria, un corpo nato con nobili intenti, si trova oggi intrappolato nella costante negazione della propria identità che ne compromette l’efficacia e la missione.

Ricordiamolo a tutti: la Polizia Penitenziaria appartiene a pieno titolo alle forze di polizia. I suoi appartenenti sono titolari delle qualifiche di polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza. Eppure, questa realtà sembra sfumare nel contesto carcerario, dove gli agenti si trovano a svolgere ruoli che poco hanno a che fare con le loro competenze e il loro mandato originario.

E’ mai possibile, infatti, che in carcere per consentire ai detenuti l’accesso alle salette della socialità, al campo sportivo, oppure persino alle docce (qualora le celle detentive ne siano prive) occorra un agente di polizia? Ed ancora, è normale che serva la presenza costante e vigile di notte di un poliziotto di fronte a 25/30 persino 50 celle detentive chiuse su più piani? Per fare cosa? Per impedire che scappino? E come potrebbero?

La contraddizione è lampante e sconcertante anche perché ricorda una concezione del carcere e di chi vi opera antecedente la Seconda guerra mondiale. In un ambiente dove i reati vengono posti in essere quotidianamente, grazie anche alla natura stessa del carcere per come è governato e strutturato oggi, ci si aspetterebbe che gli agenti di Polizia Penitenziaria siano in prima linea nel contrasto e nella prevenzione del crimine. Invece, assistiamo a uno spettacolo surreale di poliziotti relegati al ruolo di semplici sorveglianti, come se il loro unico compito sia quello di assicurarsi che i detenuti non si facciano male o, persino, che non evadano da locali in prevalenza inaccessibili dall’esterno.

Ma è davvero questo il compito di un corpo di polizia specializzato? È per questo che ne vengono selezionati e poi sottoposti ad addestramento gli appartenenti? La domanda sorge spontanea: a cosa servono i poliziotti penitenziari se il loro ruolo si riduce all’apertura e chiusura delle celle, o addirittura all’organizzazione delle partite di calcio per i detenuti?

L’ambiguità e la povertà di prospettive dei governi, perché al carcere si preferisce non pensare se non obbligati dai fatti, a prescindere dal colore politico, ha contribuito a creare questa situazione paradossale. Ma accade anche di peggio, perché poi, in assenza di altri, si pretende che gli agenti penitenziari siano anche e contemporaneamente psicologi, pedagoghi, infermieri e bidelli (dopo 4 mesi di corso – sic!). Una poliedricità di incombenze e di responsabilità impossibile e per certi versi infernale, che non fa altro che diluire l’efficacia del loro ruolo primario: quello di tutori della legge in un ambiente ad alto rischio criminale.

A ciò si aggiunga che in nessun altro luogo, che non il carcere, ciò che si deve e si può attuare cambia ogni giorno in dipendenza dalle cangianti opinioni delle corti di giustizia, della politica e dell’opinione pubblica, sempre in bilico tra la completa apertura e l’assoluta chiusura ai diritti dei ristretti; un’incertezza della pena che fa il paio con l’incertezza dei metodi e che conducono all’assenza dei risultati.

Il passaggio da Agenti di Custodia a Polizia Penitenziaria nel 1990 doveva segnare un’evoluzione significativa, rispetto al concetto del carcere quale mero “contenimento”, abbiamo assistito, invece, a una progressiva mutilazione del Corpo, ridotto a “fratello povero” delle altre forze di Polizia con il risultato di compromettere seriamente la sicurezza all’interno delle carceri e, di riflesso, quella della società intera laddove i detenuti, prima o poi, dal carcere escono.

E’ principalmente per questo che le carceri italiane diventano vere e proprie “università del crimine”. Traffico di droga, utilizzo di cellulari per gestire attività illecite all’esterno, estorsioni, e persino sparatorie e omicidi: tutto questo fiorisce sotto gli occhi di una forza di polizia impossibilitata ad intervenire efficacemente prima, mentre e dopo.

Occorrerebbe spezzare il circolo vizioso. La Polizia Penitenziaria deve poter svolgere il compito per cui è stata istituita: prevenire e reprimere il crimine nelle carceri, condurre indagini efficaci, interrompere il legame mortale tra criminalità interna ed esterna, con ciò andando a ripristinare la funzione principale di emenda e recupero della pena, soprattutto per chi veramente vuole scontare il proprio debito con la Collettività e tornare definitivamente libero e produttivo.

La scelta è ancora una volta nelle mani della politica e dell’amministrazione penitenziaria, si spera con maggiore oculatezza e sensibilità rispetto al passato.

L'articolo Gli agenti penitenziari ridotti a sorveglianti: così le carceri diventano “università del crimine” proviene da Il Fatto Quotidiano.