Piazza Carlo Alberto sottosopra: nelle viscere del parco il Museo della Speleologia di Trieste
TRIESTE Ovunque la si guardi, sopra o sotto, piazza Carlo Alberto è una pagina della storia di Trieste in attesa di essere raccontata. A collegare le due facce, quella in superficie e quella sotterranea, è il pozzo d’aerazione che sbuca all’altezza del campo da calcio: dal giardino intitolato alla memoria di Marcello Mascherini, la piccola cupola grigiastra conduce all’ex rifugio antiaereo della Seconda guerra mondiale, oggi occupato dallo Speleovivarium, il Museo della Speleologia. Ma tutta l’area ai confini del rione di San Vito rappresenta un patrimonio in parte dimenticato e da valorizzare: da via Guido Reni – dove si trova l’ingresso del museo – passando per la grande scalinata un po’ malconcia, fino appunto al giardino, completando il giro con la discesa verso passeggio Sant’Andrea.
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Un angolo dimenticato
La volontà di dar lustro a questa parte della città non manca e lo dimostrano sia i recenti lavori al giardino, sia l’impegno di chi lavora nello Speleovivarium. Tuttavia, sono in molti – non soltanto i turisti, ma prima di tutto gli stessi triestini – a non conoscere cosa sia contenuto all’interno del museo, o a non essere neppure al corrente della sua esistenza. D’altronde, San Vito è considerato nell’immaginario collettivo un quartiere esclusivamente residenziale, non associato a iniziative culturali o al passato di Trieste.
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Dentro al museo
Così entrare nella galleria sotterranea da via Reni – in cui la temperatura anche d’estate non sale sopra i 18 gradi – diventa un piccolo viaggio nella storia locale, accompagnato da un’esperienza del tutto diversa qual è quella offerta dal Museo di Speleologia. Quest’ultimo mantiene una sua dimensione quasi intima, gestito dai due factotum Edgardo Mauri e Luciano Longo della Società Adriatica di Speleologia (la direttrice è Isabella Abbona). Lo Speleovivarium è aperto le domeniche da ottobre a giugno: l’ingresso è gratuito ed è sempre possibile prenotare una visita extra su appuntamento. Ogni anno – spiega Mauri – vi entrano circa 1.500 persone, fra scolaresche, triestini e turisti.
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Protagonista assoluto degli allestimenti è il proteo, abitante delle acque sotterranee del Carso che il museo ha contribuito a salvare dall’estinzione. «Negli anni Ottanta, quando abbiamo aperto, le condizioni del proteo erano terribili», spiega sempre Mauri. Lo Speleovivarium è nato proprio con l’intento di «studiare, tutelare e conservare il proteo come rappresentante dell’ecosistema ipogeo», benché il museo non ospiti più animali a causa dell’aumento delle temperature (basse, ma non abbastanza da raggiungere i livelli di una grotta).
Le prospettive
Il futuro del museo vede un’estensione dell’attuale offerta in più direzioni: nel racconto delle cavità artificiali che si celano sotto Trieste (sezione dedicata al ricercatore Armando Halupca), così come lo studio degli effetti prodotti dal cambiamento climatico sul ciclo idrologico. Un percorso portato avanti assieme alle scuole e ai ricreatori, con più di 500 ragazzini che hanno fatto visita alla struttura di via Reni nel corso di questa estate.
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Chiaro che quanto detto finora non può che essere un assaggio. È l’area nel suo complesso che andrebbe vista sotto un’altra luce, rivalutandola nelle sue oggettive potenzialità. Non per snaturala o trasformarla in ciò che non potrà mai essere – nessuno vuole fare dello Speleovivarium il nuovo Revoltella – ma per indagare un lato di Trieste dall’indiscutibile fascino. E con margini di miglioramento ancora ampi.